12 ottobre
Ancora una volta svegliato intorno alle tre del mattino.
Sono stati i rumori provenienti dall’appartamento al piano di sopra.
Non se nemmeno come definirli. Rumori o suoni. Quelli di questa notte erano bassi e intermittenti.
La prima cosa a cui ho pensato è stata la pulsazione di un cuore abnorme. Il battito lento dell’organo di un gigantesco pachiderma malato.
È andato avanti per quasi mezz’ora, impedendomi di tornare a dormire. Poi ho colto dei passi strascicati e il rumore di una porta, quella dell’ingresso probabilmente, che si apriva senza chiudersi.
Mi sono alzato per andare in cucina a bere dell’acqua. Mentre percorrevo il corridoio ho percepito ancora qualcosa. Come una voce che borbottava velocemente. Nulla di comprensibile, ovviamente. Mi pareva che arrivasse dalla camera singola del mio appartamento.
Il che è chiaramente impossibile.
13 ottobre
Sono sempre più convinto che non sia stata una buona idea accettare il lavoro.
I nuovi colleghi non si preoccupano di far trasparire la loro ostilità fin da quando alle otto del mattino metto piede in ufficio. Praticano nei mie confronti una guerriglia psicologica, le cui armi principali sono fugaci sguardi in tralice, sorrisini di scherno ed espressioni perplesse, di solito alle mie spalle, a ogni mia richiesta di spiegazioni sulle procedure aziendali, sul funzionamento del software gestionale o su qualsiasi altro aspetto della routine lavorativa.
Come se dopo due settimane dovessi avere già assimilato tutto.
Dovrei parlarne con Barberio, il responsabile dell’ufficio.
In fondo è grazie a lui, se mi trovo qui. O forse dovrei dire a causa sua.
Un favore che mi doveva dai tempi della scuola, mi ha detto quando mi ha chiamato per propormelo. Sostiene che gli ho fatto copiare il compito di matematica all’esame di maturità. Onestamente non mi ricordo di averlo fatto, anche perché in matematica sono sempre stato una schiappa, ma non mi sono impegnato più di tanto a contraddirlo.
16 ottobre
Giulia ha detto che vuole la separazione consensuale.
Mi ha chiamato mentre ero in pausa pranzo. Il suo avvocato contatterà il mio nel giro di un paio di giorni. Vuole anche almeno metà della quota di mantenimento di Edoardo che non ho ancora versato. Entro la fine della prossima settimana, ha detto.
Io ho continuato a masticare rumorosamente l’insalata di cereali che avevo preparato la sera prima, senza dire nulla. Lei mi ha insultato e ha riattaccato.
Nguyen continuava a fissarmi dal centro del monitor.
Accosciato come sempre all’imbocco rotondo della sua galleria sottoterra.
Indossa una casacca e pantaloni tinta blu scuro. Molto simile a una tuta da lavoro.
È l’immagine salvaschermo sul computer che mi hanno dato in ufficio. L’ho scaricata dalla pagina di Wikipedia dedicata ai “Viet-Cong”. La manovalanza della guerra di liberazione rivoluzionaria.
Nguyen è ovviamente un nome di pura fantasia.
17 ottobre
Stasera la caldaia si è spenta mentre mi facevo la doccia.
Sarà difficile trovare qualche tecnico disposto a muoversi nel fine settimana. Ho chiamato Barberio per comunicargli del guasto. Si è scusato e mi ha detto che avrebbe avvertito subito il caldaista.
È Barberio che mi ha trovato questa casa. Era l’appartamento dei suoi genitori. La signora, ottantaduenne e vedova, sette mesi fa è incespicata sul tappetino del bagno, frantumandosi il femore destro e la spalla sinistra. Da allora è parcheggiata in una casa di riposo.
Certo, per me si tratta di una sistemazione provvisoria, nell’attesa di trovare qualcosa di più funzionale, dopo che saranno entrati in conto i primi stipendi. Al momento sono a mio carico solo le bollette della luce, del gas e le spese condominiali.
Barberio aveva liberato un paio di scomparti dell’armadio a sei ante della camera matrimoniale e i primi tre cassetti di un grande comò in legno nero laccato, nel corridoio che portava al bagno. Il ripiano superiore del comò, così come buona parte delle mensole dei mobili e delle vetrinette della casa, è stipato di soprammobili, cofanetti, bomboniere e foto incorniciate della signora e del suo defunto marito.
I libri sono pochi. Per lo più si tratta di libri di ricette, assieme a qualche classico in vecchie edizioni cartonate e un’enciclopedia a fascicoli che veniva distribuita assieme un quotidiano una trentina di anni fa. Alle pareti, coperte da una tappezzeria floreale che doveva essere all’ultimo grido a metà degli anni ’60 sono appese altre foto, acquerelli di paesaggi e un paio di poster di Padre Pio.
È come vivere in una specie di museo morto.
18 ottobre
Svegliato intorno alle due da un grido. Proveniva dal piano di sopra.
Un grido rauco, inarticolato. A cui è seguito uno scroscio sordo come di acqua che viene fatta scorrere a lungo dal rubinetto.
Mi ero addormentato sul divano davanti alla televisione, imbacuccato in un plaid che odorava di muffa, trovato sul fondo dell’armadio della camera matrimoniale. Il divano è ancora avvolto nel cellophane, ma le molle del telaio sono sfondate e pigolano a ogni minimo movimento.
La partita che avevo cominciato a guardare era finita da un pezzo. Sullo schermo si agitavano come ossessi due cabarettisti di uno show comico in replica. Risate, forse registrate, partivano a ogni battuta.
Mentre l’acqua scorreva, ho sentito ancora del trapestio dal piano di sopra. Una porta sbattuta che è risuonata come un’esplosione nucleare.
Mi sono infilato a letto vestito.
Forse dovrei cercarmi da subito un’altra sistemazione.
20 ottobre
Oggi in ufficio, approfittando della pausa caffè dei colleghi, Barberio mi ha chiesto come stava andando.
Pensavo intendesse parlare del lavoro, invece voleva sapere della separazione.
Da separato si è preso a cuore la mia situazione ben più di quanto mi potessi immaginare. Negli ultimi quindici anni ci saremo visti quattro o cinque volte, a qualche cena di classe. L’ultima volta è stata un mese e mezzo fa al supermercato. Vicino al residence dove dormivo da qualche settimana, dopo che Giulia aveva preteso che me ne andassi da casa. Erano almeno settantadue ore che non parlavo con nessuno.
Così gli avevo raccontato tutto.
Forse solo per essere sicuro che il suono della mia voce fosse ancora quello che conoscevo. La stupidaggine fatta con una collega. L’ira di Giulia, i miei goffi tentativi di ricomporre la frattura e poi, come una specie di beffardo contrappasso, la crisi dell’azienda per cui lavoravo, l’avvio della procedura fallimentare e il licenziamento.
Mentre raccontavo l’avevo visto rabbuiarsi. Pensavo volesse elargirmi qualche sentenza moralistica. Invece mi aveva abbracciato. Tremava. Ci era passato anche lui, mi aveva detto. Stessa trafila, solo che non aveva perso il lavoro.
Ci eravamo scambiati il numero di cellulare.
Dieci giorni dopo mi aveva chiamato per offrirmi una casa e un impiego. Mi aveva raccontato quella storia del compito di matematica.
Intanto stasera il caldaista non è venuto. In casa comincia a fare veramente freddo.
21 ottobre
Stamattina la caldaia ha ripreso a funzionare.
Sono riuscito a fare lunga una doccia calda. Non è stata molto rilassante però, dato che temevo di ritrovarmi da un momento all’altro sotto un getto d’acqua antartica.
Ho comunque indugiato più del dovuto e sono stato costretto a uscire senza fare colazione.
Sul pianerottolo ho incrociato la mia dirimpettaia. È alta e magra, sulla settantina. Oggi navigava in un cappotto spinato grigio chiaro. Lo stesso colore dei suoi capelli. Nonostante fossero solo le otto e dieci era già di ritorno dal mercato con due borse piene di verdura. Verze e cicoria soprattutto. Patate e porri. E un paio di bottiglie di Martini rosso.
L’ho salutata con un sonoro “Buongiorno” e lei si è limitata a rispondermi con un cenno del capo.
Le ho chiesto se per caso sapesse chi abitava al piano di sopra. Lei mi ha guardato di traverso, mi pareva infastidita. «Una famiglia straniera, mi pare.» ha risposto mentre iniziava a girare la chiave nella serratura per aprire la porta.
Stavo per chiederle se anche lei sentiva i rumori nel cuore della notte, ma si già era infilata dentro casa, veloce come una lucertola.
22ottobre
Giulia mi ha chiamato.
Questo fine settimana non potrò vedere Edoardo. Andrà a Gardaland con sua cugina. Posso recuperare durante la settimana, dice. Ignorando, o forse fingendo di ignorare, che lavoro da troppo poco tempo per aver già maturato dei giorni di ferie.
Rientrando a casa ho di nuovo studiato il pannello del citofono. Trentadue campanelli, corrispondenti ad altrettanti appartamenti, suddivisi in quattro scale. Ho provato anche a intuire quale fosse il campanello degli inquilini del piano di sopra. C’erano solo numeri.
Anche l’ispezione delle cassette della posta arrugginite che tappezzano la parete a destra dell’ingresso ha dato lo stesso esito fallimentare.
23 ottobre
La caldaia si è bloccata un’altra volta.
Stamattina Barberio mi ha detto che sta cercando di rintracciare il tecnico, ma pare diventato irreperibile. Nel pomeriggio è entrato in ufficio con un piccolo scatolone. Dentro c’era una stufetta elettrica. Lo ha posato accanto alla mia scrivania.
I colleghi si sono fermati a godersi la scena. L’ennesima elemosina, avranno pensato. Con la coda dell’occhio ho colto risatine di scherno germogliare sulle loro labbra.
Barberio si è scusato di nuovo. Poi ha notato il salvaschermo.
C’era Nguyen, con i suoi zigomi alti e scavati.
Le unghie dei piedi maciullate sopra infradito con la suola di legno.
Il fucile che imbraccia non è il classico kalashnikov. È un vecchio modello. Francese, probabilmente. Bottino di guerra. La baionetta è inastata e girata sotto la canna.
Barberio ha sorriso. Ma c’era una sorta di sconforto che gli balenava in fondo agli occhi.
Si è scusato ancora per la caldaia ed è uscito lasciandomi in pasto ai colleghi.
25 ottobre
Di nuovo, il cuore pulsante della bestia.
Alle tre e diciassette del mattino. A svegliarmi però non è stato lui. Il battito del cuore ha chiuso una lunga serie di lavori. Raffiche intermittenti di colpi di martello. Ronzii acuti, come di un trapano o forse di un avvitatore. Ante e cassetti sbattuti. Conciliaboli in una lingua imbottita di suoni lunghi e miagolanti, e poi qualcosa che ricordava molto il pianto sommesso di un neonato.
È iniziato tutto verso le due e mezza.
Sono corso in cucina e ho afferrato la scopa. Ho iniziato a colpire il soffitto con l’estremità del manico, nelle pause tra quelli che sembravano i colpi del martello e i presunti giri di trapano.
Volevo anche gridare qualcosa, ma poi ho pensato alla mia voce. A come sarebbe suonata in quel mausoleo immerso nel buio e nell’odore di chiuso. Mi sono sentito ridicolo.
Allora ho pensato di salire e di presentarmi alla loro porta. Il senso del ridicolo è salito alle stelle. Ho camminato per almeno dieci minuti su e giù per il corridoio, come una sentinella in attesa del cambio alla fine del turno di guardia, finché i rumori si sono quietati.
Quando il cuore del pachiderma ha cominciato a battere, coprendo il lamento del neonato, ho messo via la scopa e mi sono infilato a letto sotto la doppia coperta.
Devo andarmene quanto prima da questa casa.
26 ottobre
Dopo il lavoro ho visto il mio avvocato.
Ha voluto che ci incontrassimo al bar sotto il suo studio, in centro. Mentre buttava giù aperitivi senza soluzione di continuità, mi spiegava i prossimi passi per definire la situazione. Mi ha consigliato di provvedere quanto prima versare il mantenimento di Edoardo. Per smussare gli spigoli, ha grufolato, riempiendosi la bocca di salatini. Certo, ho detto io. Anche se al momento credo di non avere più di duecento euro sul conto.
Poi mi ha detto che ancora non capiva perché avessi deciso di confessare tutto a mia moglie. Se come gli avevo raccontato era stata una sbandata, un momento di follia durante una trasferta di lavoro, perché lo avevo raccontarlo a Giulia? Senza aspettare la risposta, aveva scosso la testa e poi si era scolato il terzo Campari tutto d’un fiato.
27 ottobre
Giornata tutto sommato tranquilla.
Di rientro dal lavoro, prima di salire a casa ho fatto una passeggiata attorno al condominio.
È una gigantesca scatola da scarpe color verde oliva, circondata da altre scatole da scarpe marroni, beige o azzurre, in quello che fino a vent’anni fa era un lindo e ordinato quartiere popolare.
Ho controllato di nuovo il pannello del citofono. Solo la metà dei trentadue campanelli ha un cognome associato. Quelli che sembrano italiani non sono più di quattro o cinque. C’è da scommettere che sono quei pochi a non avere una antenna parabolica sul terrazzo e una macchina con più di quindici anni parcheggiata nel box auto.
28 ottobre.
Finalmente, il tecnico della caldaia è venuto.
Ha riparato il guasto, ma ha detto che bisognerebbe sostituire altri componenti per evitare che il problema si ripresenti. Ne parlerà col padrone di casa.
Ho notato degli strani segni sulle pagine del quaderno dove sto scrivendo queste note. Sembrano lettere di un alfabeto remoto, quasi delle rune, scarabocchiate qua e là ai margini dei fogli. Non ricordo affatto di averle tracciate. Né di aver lasciato il quaderno aperto sul tavolo della cucina ieri sera.
Di solito mi metto a scrivere molto tardi. So che è il momento giusto quando comincio a indovinare profili di volti umani nelle pieghe delle tende.
Ieri sera dal piano di sopra nessun rumore. Finito di scrivere, sono stato in ascolto, per circa due ore. Poi ho riposto il quaderno nel primo cassetto della credenza. O almeno credo di averlo fatto.
Mentre mi addormentavo avevo ripensato a Nguyen.
In testa porta un casco, anche se assomiglia più a un’insalatiera, probabilmente di corteccia di bambù intrecciata. Dipinta anch’essa di blu scuro. Il sottogola è di nudo spago. Appesa al collo, una bisaccia di tela per le pallottole, le razioni di riso, qualche bustina di sulfamidici, garze e medicinali di primo soccorso.
1 novembre
Il cellulare trillava e vibrava furiosamente.
La sveglia, ho pensato mentre mi sfilavo dal bozzolo di lenzuola e coperte per allungare un braccio sul comodino e raggiungere il telefono. Non ho sentito la sveglia. Questo è l’ufficio. Non aspettavano altro quegli stronzi.
Invece era Giulia.
Dopo una salva di insulti, mi ha chiesto dove fossi. Dove cazzo fossi, per essere precisi.
Sono le undici e tre quarti, ha strillato. Tuo figlio sono tre ore che ti aspetta. Stronzo. Coglione. Testa di cazzo. Poi ha riattaccato.
Per la festività di Tutti i Santi avevo promesso a Edoardo che lo avrei portato al circo. Avevo comprato i biglietti per lo spettacolo del mattino. Però avevo dimenticato di mettere la sveglia e avevo dormito fino quasi a mezzogiorno. La cronologia delle chiamate perse ne segnava quindici. Tutte dal numero di Giulia. Come avevo fatto a non sentirle?
Seduto sul bordo del letto, ho provato a richiamarla, ma dopo due squilli ha staccato il cellulare. Ho pensato di mandarle un messaggio. Un vocale. Per scusarmi direttamente con il bambino. Sono rimasto quasi cinque minuti con l’icona del registratore pigiata. Ogni volta che mi decidevo a cominciare, sentivo l’aria mancarmi nella gola e la nausea invadermi lo stomaco.
Ho buttato il cellulare e mi sono rimesso a dormire.
Ho sognato mio figlio. Nel sogno pareva poco più che neonato. Mi trotterellava incontro sul vialetto di una casa che non era la nostra vera casa, anche se Giulia, ferma sotto al portico, si sbracciava per salutarmi sorridendo. Dopo avermi raggiunto, Edoardo si sollevava sulle gambette paffute per abbracciarmi. Gli accarezzavo la testa e lui uggiolava. Aveva il corpo e le zampe anteriori un cane. Abbaiava felice, sbavava e mi girava intorno.
A svegliarmi però sono stati i lamenti che provenivano dal piano di sopra. Come se qualcuno stesse sbadigliando rumorosamente, a ripetizione. Mancavano due minuti a mezzanotte. Avevo dormito altre dieci ore.
2 novembre
Sono rimasto ancora a letto, per tutto il giorno.
Verso le otto, dopo aver comunicato all’ufficio che non mi sentivo bene, ho staccato di nuovo il telefono fino a sera. Riaccendendolo ho trovato una raffica di messaggi e chiamate perse. Da parte di Barberio. Poi anche dal mio avvocato, da un paio di numeri sconosciuti e da Giulia.
Domani risponderò a tutti, ho pensato. Domattina chiamerò il medico. Accuserò un’influenza stagionale massiccia. Dolori alle ossa, naso che cola. Disturbi intestinali, magari. Potrei prenotare anche degli esami clinici.
La vescica mi doleva. Era piena da oltre ventiquattro ore. Avrei dovuto alzarmi e svuotarla. Invece mi sono girato dall’altra parte e mi sono riaddormentato.
Quando mi sono svegliato che era già note inoltrata. Il letto era fradicio di piscio. Ho appallottolato pigiama, lenzuola e coperte e le ho gettate nella cesta della biancheria sporca in bagno, ripulendomi poi come meglio potevo.
Per il resto della nottata sono rimasto sul divano, avvolto in un plaid, bevendo acqua minerale e prendendo appunti. La tivù a volume bassissimo su un canale di televendite, pronto a captare il minimo rumore proveniente dal piano di sopra.
Così fino al mattino.
3 novembre
Nessuno è solo quanto Dio. E se fossimo noi il suo passatempo?
È la frase che ho trovato sul quaderno, subito dopo le note relative alla giornata di ieri. Non ricordo di averla scritta. Anche la calligrafia, mi è familiare solo in parte.
Stamattina Barberio mi ha telefonato. Ho temporeggiato, dicendo che ora stavo avendo dei dolori, simili a coliche. Si è detto molto dispiaciuto, ma si è raccomandato di mandare in azienda il certificato del medico al massimo entro domani.
Gli ho detto che nel pomeriggio avrei chiamato il medico, poi ho passato buona parte della mattinata a catalogare lo scatolame che ho trovato in uno dei mobili della cucina che non avevo mai aperto. Lattine di fagioli borlotti, cannellini, bianchi di Spagna. Lenticchie. Ceci. Filetti di sgombro. Filetti di tonno. Olive. Capperi. Peperoni sottolio. Pomodori pelati. Confezioni di pan carrè. Farina doppio zero. Caffè in polvere. Tutta roba scaduta da mesi se non da anni. In alcuni casi ancora con l’etichetta adesiva del prezzo in lire. Avevo indossato dei pantaloni di fustagno, trovati in uno degli scomparti dell’armadio che non erano stati sgomberati. Dovevano appartenere al papà di Barberio. Sulle spalle, a mo’ di poncho, il plaid della sera prima.
Sono rimasto sul divano per tutto il pomeriggio. A cena ho aperto una scatola di fagioli cannellini accompagnandoli con un fetta di pan carre’. Era tutto scaduto da almeno cinque anni. Il pan carrè era croccante. Era come mordere un foglia di platano secca. Sapeva di polvere e muffa.
Nel giro di un’ora ho vomitato tutto. Mentre svuotavo l’intestino, curvo sulla tazza del cesso, mi era parso di sentire dei rumori dal piano di sopra.
Come di qualcuno che rideva.
4 novembre
Sono rimasto incollato allo spioncino dell’uscio per tutta la giornata.
Arrivata da chissà dove, la convinzione che gli inquilini del piano di sopra sarebbero passati sicuramente dal pianerottolo mi si era piantata in mezzo al cervello, come un chiodo nel polso di Cristo Nostro Signore. Amen.
Dall’alba fino quasi al tramonto, in piedi, attaccato al portoncino, il plaid avvolto intorno al busto e i piedi nudi piantati sulle piastrelle fredde. Una caraffa a portata di mano, in modo da non dovermi allontanare dal mio posto si osservazione per pisciare.
Il tempo è scivolato via come sabbia umida tra le dita. Una qualità viscosa di tempo. Sfuggiva dalle mani e gocciolava a terra, pastoso, formando stalagmiti sghembe pronte a essere inghiottite dalla risacca di un oceano immaginario.
Verso sera mi sono dovuto spostare in bagno per svuotare la caraffa.
Quando sono tornato allo spioncino, sul pianerottolo c’era Barberio. S’è attaccato al campanello. Poi ha bussato come se dovesse buttare giù la porta. Ha chiamato il mio nome. All’inizio con un tono che mi pareva preoccupato. Poi l’intonazione s’è fatta più aggressiva. Sono rimasto di sale, dietro la porta, in apnea. Sperando che non avesse portato con sé il secondo mazzo di chiavi. Quando l’ho visto rovistarsi le tasche del soprabito, ho temuto il peggio. Allora ho ripensato a Nguyen nel suo buco. Con la sua insalatiera calcata in testa. Un guerrigliero comunista vietnamita che difende l’accesso al suo tunnel con le unghie e con i denti. Devo trovarlo dentro di me. Intendo dire l’abito mentale. L’attitudine. La coerenza strenua ai limiti dell’eroismo. L’abnegazione a una causa.
Senza staccare gli occhi dallo spioncino ho soppesato la caraffa di vetro che avevo in mano. Era sufficiente a fare un discreto danno con un colpo ben assestato, ma invece delle chiavi Barberio ha tirato fuori una penna e un’agendina. Ha strappato una pagina, ci ha scritto sopra qualcosa e l’ha passata sotto la porta.
Chiamami appena puoi! senza certificato da domani sarai assente ingiustificato. B.
5 novembre
La malattia è l’amore di due creature estranee che cercano di unirsi.
Giulia è stata quanto di più estraneo potesse tentare di unirsi a me. Quando avevamo iniziato a frequentarci mia madre e mio padre non avevano visto di buon occhio quella ragazza bellissima e viziata, piena di manie e pretese altoborghesi, ma poi nell’arco di un anno e mezzo se n’erano andati entrambi. Un infarto per lui e un cancro ai polmoni diagnosticato troppo tardi per lei.
Che Giulia conosca modi raffinatissimi per comportarsi come una stronza arrogante è difficile da negare. Meritava quello che le ho fatto? Nessuno lo merita mai davvero. Nonostante tutte le piccole umiliazioni che mi aveva inflitto prima e soprattutto dopo il matrimonio. Stilettate fatte di silenzi e sguardi, soprattutto. Non volevo un figlio. Non lo avevo mai voluto. Ma dopo quasi due anni di guerra fredda avevo ceduto al suo ricatto. Pavido coglione votato alla stabilità a tutti i costi, mi ero risolto a trasformarmi in quello che non avrei mai immaginato di poter essere: un genitore amorevole. O quantomeno a provarci.
Oggi pomeriggio ho acceso per qualche minuto il cellulare. Negli ultimi tre giorni lei mi aveva tempestato di chiamate e messaggi. Il più leggero suonava come «Ci vediamo in tribunale. Sei un pezzo di merda.»
Lo sai che nostro figlio è un cane? le ho scritto. Ho corretto “nostro” con “tuo”. Poi però ho cancellato il messaggio senza inviarlo.
Ho tolto la scheda dal telefono e l’ho ingoiata. L’ho mandata giù a secco, senza nemmeno un goccio d’acqua. In cucina ho preso un batticarne dal cassetto degli utensili e ho fatto a pezzi il cellulare.
Verso sera, mi è sembrato di udire dei rumori provenire dal ripostiglio. Ho controllato, ma ovviamente non c’era nessuno.
6 novembre
Ho perso lucidità, lo devo ammettere.
Distruggere il telefono e ingoiare la scheda non è stata una buona idea. Oramai riesco a dormire solo per periodi intermittenti che diventano sempre più brevi. Pochi minuti, immagino. Il divano è scomodo e il salotto è la stanza più fredda della casa.
La caldaia mi ha piantato in asso di nuovo, non saprei dire da quanto. La stufetta che mi aveva dato Barberio si è fulminata dopo un paio d’ore di funzionamento.
Ho smesso di mangiare da tre giorni. Il frigo è vuoto e non mi fido a pescare altro dalla necropoli dello scatolame che ho ispezionato qualche giorno fa.
Ma ho deciso che stasera mi darò una ripulita. Scalderò dell’acqua per lavarmi. Mi farò la barba. Domani tornerò al lavoro. Mi scuserò con Barberio e con i colleghi. Poi contatterò Giulia. Le manderò una email magari. Mi scuserò anche con lei. Ricominceremo a parlare. Arriveremo a un accordo, ne sono certo. Poi farò la spesa, prenderò frutta e verdura fresca. Uova, formaggio e della carne. Anche un bottiglia di vino buono. Domani sera mi cucinerò un pasto come si deve. Riprenderò in mano la mia vita. Il sole sorgerà ancora.
Adesso invece piove. Il cielo grigio lascia fluire una pioggia fitta e sottile, che immagino fredda. Il vento la spinge contro le lastre delle finestre. Le gocce esplodono contro il vetro con un ticchettio ovattato. Le sagome degli altri condomini si intravvedono appena nella luce del pomeriggio che si va facendo sempre più fioca.
7 novembre
Un’improvvisa sensazione di soffocamento.
Questa notte mi sono svegliato nel buio del salotto, tossendo. La gola mi bruciava. Il petto e il collo mi dolevano. Ansimando mi sono messo a sedere sul divano. Il cellophane ha rumoreggiato e le molle hanno pigolato acutamente. Catturavo l’aria stantia del salotto con la bocca aperta e proprio allora ho avuto la netta impressione che qualcuno fosse appena sgattaiolato fuori dalla stanza attraverso la porta semiaperta. Passi ovattati che si sono allontanati, in direzione della camere o del ripostiglio. In un bagno di sudore da panico, ho atteso cinque minuti prima di alzarmi e chiudere la porta del salotto. Poi sono tornato sul divano. Mi ci sono raggomitolato sopra, la coperta tirata sopra la testa. Ho pensato di chiudermi dentro. La porta però non ha la chiave. Potevo barricarla trascinandoci davanti lo scrittoio in stile Settecento che indugia, coperto di polvere, all’angolo opposto del salotto. Quando ho accennato ad alzarmi di nuovo la testa ha cominciato a girarmi fortissimo, mentre le gambe mi tremavano, come se le ossa fossero di burro fuso. Ho passato il resto della nottata sul divano. Le ginocchia al petto e gli occhi sbarrati nel buio, guardando in direzione della porta.
8 novembre
Ho trascorso così anche buona parte della mattinata.
Verso mezzogiorno ho deciso di avventurarmi in bagno. Ho aperto la porta e ho ispezionato il corridoio deserto.
Solo allora ho sentito i rumori. Un cigolio intermittente e cadenzato a cui si intervallavano grugniti, mugolii e lamenti in un crescendo sonoro inequivocabile. Al piano di sopra qualcuno stava scopando rumorosamente.
Dovrei salire, mi ero detto, anche se la testa mi pulsava e la vista era annebbiata. Ora che è giorno. E farla finita una volta per tutte.
Invece dopo essere stato in bagno, sono tornato in salotto. I rumori al piano di sopra continuavano. Raggiungevano l’acme per poi attutirsi gradualmente e riprendere a crescere, con la regolarità di un macchinario industriale in pieno ciclo di produzione. Così per almeno un altro paio d’ore
Sul tavolinetto davanti al divano c’è la foto del padre di Barberio in una cornice d’argento. A figura intera, in divisa. Postino. O ferroviere. Magari usciere di qualche ente parastatale. L’espressione è arcigna, appena mitigata da un’ombra di bonomia meridionale. Da qualche giorno ho l’impressione che voglia dirmi qualcosa. Forse lui sa. O crede di sapere. Anche se un ictus se l’è portato via quindici anni fa.
Poi, nonostante il frastuono che arrivava dal piano di sopra, ho sentito il rumore di una chiave che iniziava a girare nella toppa della porta d’ingresso.
9 novembre
Era Barberio.
Quando aveva aperto la porta d’ingresso, chiamando ad alta voce il mio nome, mi ero alzato dal divano. Lui aveva tossito prima di borbottare qualcosa a bassa voce, mi pare a proposito della puzza di chiuso. Poi mi aveva chiamato ancora. L’avevo sentito muoversi verso la cucina e ne avevo approfittato per scivolare in corridoio. Avevo puntato al ripostiglio. Mi ci ero infilato dentro, cercando di fare meno rumore possibile con la porta.
È un bugigattolo non più grande di una cabina telefonica, stipato di scope, secchi, stracci, flaconi di detersivi e di altri prodotti per la pulizia della casa. E di scatole da scarpe, che arrivano fino quasi al soffitto in torri parallele e pericolanti. Ero riuscito a malapena a sedermi sul pavimento. Avevo trattenuto il respiro, mentre tendevo l’orecchio a quel che stava succedendo nell’appartamento, nonostante i rumori martellanti dell’eterna scopata provenienti dal piano di sopra rendessero il compito più difficile.
Barberio intanto stava spalancando le porte delle stanze, ripetendo con sempre maggiore veemenza il mio nome. Aveva indugiato in salotto, aprendo le finestre e sbloccando gli scuri. In camera, alla vista dei materassi nudi e macchiati di piscio, aveva bestemmiato la Madonna. Aveva spalancato le finestre anche lì, poi aveva preso a camminare su e giù con per il corridoio, fino a che non si era fermato davanti al ripostiglio. Ne potevo intuire la sagoma dietro il pannello di vetro smerigliato della porta.
Mi ero raggomitolato sotto il plaid, cercando di farmi piccolo quanto un granello di polvere. Barberio aveva aperto la porta. Rannicchiato sotto il plaid, sforzandomi quasi di sprofondare oltre le piastrelle del pavimento, ne potevo intuire il respiro un po’ affannoso. Poi però qualcosa aveva attirato la sua attenzione. Un colpo sordo, o magari un rumore di passi. Avevo sentito che si allontanava in direzione della cucina.
“Oh, ma allora ci sei!” aveva esclamato mentre ci entrava. Subito dopo c’era stato un suono secco, come di un legno che si spezza. Forse era solo la porta che sbatteva. Poi più nulla.
Anche al piano di sopra, intanto, era tornato il silenzio.
10 novembre
Prima di muovermi dal ripostiglio ho aspettato.
Almeno altre due ore. Immobile, sotto la coperta, in posizione fetale. Respirando la polvere del pavimento. Quando mi sono rialzato e mi sono affacciato in corridoio il vuoto sonoro era assoluto. Sono tornato in salotto. Le finestre aperte facevano entrare il freddo pungente del pomeriggio ormai avviato a diventare sera. Le ho chiuse e mi sono seduto sul divano. Battevo i denti.
Ma devo aver dormito comunque. Almeno tre ore. A svegliarmi, che ormai era notte, è stato Nguyen. Me lo sono ritrovato seduto di fianco a me, nella sua divisa azzurra. Il casco in testa e la bisaccia a tracolla. Gli occhi piccoli e la faccia rugosa come il guscio di una noce. Mi ha fatto cenno di tacere, poi mi ha aiutato ad alzarmi e mi ha accompagnato in bagno. Aveva già preparato numerose pentole d’acqua calda. Mi ha dato una mano a lavarmi e poi a radermi. Un pigiama di flanella pulito mi aspettava nella cameretta singola. La testa mi girava e il silenzio assoluto che regnava nell’appartamento mi riempiva le orecchie di stoppa bagnata. Sempre senza parlare, Nguyen mi ha messo a letto. Poi con un cenno mi ha fatto capire che si metteva di guardia, all’ingresso.
Mi sono avvoltolato tra le coperte, le braccia conserte fino quasi a stritolarmi il torace. Cercando di sentirmi come in un bozzolo. Ridurmi a una larva. Immaginare la pelle che si disfaceva in strisce di carne vizza, come foglie secche. Imputridire prima dall’interno. Un falso movimento che rivela la precarietà del tutto.
11 novembre
Intorno alle dieci del mattino, il suono acuto e prolungato del campanello.
Sulla soglia, una donna. L’ex moglie di Barberio. L’ho riconosciuta mentre, senza staccare gli occhi dallo spioncino, facevo scattare le mandate della porta. La ricordavo a qualche cena di classe, quando ancora ci andavo e lei e Barberio non si erano ancora separati. Era invecchiata. Ma in fondo non lo siamo tutti?
Ho aperto la porta, il fiato corto per lo sforzo di restare in piedi e sbloccare i chiavistelli della porta. Sono almeno dieci giorni che non mangio. Sopra il pigiama, che mi stava incredibilmente largo, avevo indossato una golf di lana rosso. Probabilmente apparteneva anche quello al papà di Barberio.
La donna mi ha squadrato per qualche secondo, interdetta. Si è scusata del disturbo e mi ha chiesto se per caso avessi notizie del suo ex marito. Quella mattina avevano appuntamento dall’avvocato per chiudere alcune pratiche relative al divorzio, ma lui non si era presentato, e facendo un paio di telefonate lei aveva scoperto che l’uomo da due giorni non si faceva vedere in ufficio e non rispondeva al telefono. Le ho detto che ero in malattia da due settimane e non lo sentivo da almeno cinque giorni. La donna ha sospirato. Un sospiro lungo e sottile, che era più un fremito di esasperazione.
Mi ha rivolto un ultimo sguardo perplesso e mi ha salutato, lasciandomi un biglietto da visita plastificato con il suo numero di telefono, pregandomi di chiamarla se avessi avuto qualche notizia. Ho annuito con sincera convinzione, aggiungendo un “Non si preoccupi” che ho cercato di non far suonare di circostanza. Poi ho richiuso la porta. La testa mi girava vorticosamente. In bocca un perenne sapore acre di frutta andata a male.
Sbucato da chissà dove, Nguyen è arrivato a sostenermi.
12 novembre
Empatia.
Esprime la capacità di identificarsi emotivamente con un’altra persona, la consapevolezza dei pensieri, dei sentimenti, dello spazio interiore di chi ci sta di fronte.
Che smette di essere semplicemente “l’altro”, ma diventa qualcosa di unico e di differente dal resto della realtà che ci circonda; qualcuno, anzi Qualcuno in cui diventa possibile rispecchiarsi e riconoscersi. Dovrebbe essere ciò che ci impedisce di pensarci esclusivamente come animali razionali. Esseri socievoli, non fosse altro che per perseguire in maniera più intelligente i nostri scopi egoistici. Dovrebbe essere ciò che ci rende umani, almeno credo.
È questo l’inizio della lettera a Giulia che ho tentato di scrivere oggi. Volevo scriverle qualcosa che la toccasse. Mi è costata quasi tre ore di lavoro. Pagine e pagine di agenda imbrattate e strappate, che poi ho masticato e ingoiato per placare gli spasimi della fame.
Mentre scrivevo mi è diventato duro, pensando al suo profumo.
Erano mesi che non capitava. Fuori ha iniziato a piovere. Allora ho provato a masturbarmi. Inutilmente.
Poi ho immaginato di averla qui a cena. Un meraviglioso banchetto a lume di candela a base di scatolame scaduto e acqua di rubinetto.
Prima di vomitare tutto, ci sfioreremmo le mani. La luce sarebbe bassa. Incredibilmente densa. Come miele. Tutto fluirebbe e scorrerebbe attraverso i nostri nervi, le le nostre ossa, e i suoi capelli, tessuti nelle trame di un solstizio anticipato.
E nessun rumore dal piano di sopra.
Così dovrebbe andare.
13 novembre
Nessuno è solo quanto Dio. E se fossimo noi il suo passatempo? dice Ngyuen.
In un misto di italiano, francese e vietnamita, che in questi giorni ho scoperto di capire alla perfezione, mi ha racconta di quel che ha visto e fatto durante la guerra.
I colori del tramonto sul delta del Mekong. I monsoni. Il generale Giap. Un pattuglia di soldati regolari dell’esercito sud vietnamita che stupra sua sorella di quattordici anni. I bufali al pascolo nelle risaie.
Mentre se ne sta in salotto, il casco ben allacciato e gli zoccoli di legno infilati ai piedi nudi e lerci, mi racconta del primo americano che ha ucciso. Un marine rimasto isolato durante un pattugliamento. Gli ha fracassato la spalla destra con un colpo di moschetto. Quello cui suo nonno dava la caccia alle scimmie. Gli ha trapanato la spalla da quasi trenta metri e poi lo ha finito a colpi di falcetto. Mentre racconta, mima le azioni con il martello che tiene tra le mani.
È con quello che ha messo a dormire Barberio. Un solo colpo secco. Una fucilata in mezzo alla fronte, che gli ha finalmente regalato il sonno dei giusti. Sul pavimento delle cucina, il suo corpo sta cominciando a marcire. La casa si sta riempiendo di una puzza dolciastra.
Nguyen dice che era l’odore che ha sentito ogni mattina, per anni. Per tutto il tempo della guerra e anche dopo che gli americani se ne erano andati. Un tanfo orribile. E così forte da farti vomitare le tue stesse budella. Nguyen dice che questo odore ci ricorda ciò che alla fine siamo a destinati a diventare tutti. E che una volta che lo hai sentito, non riesci più a togliertelo dalle narici.
Però dice che se impari a sopportarlo, il sentiero che porta alla vittoria non può che essere tuo.