12 ottobre
Ancora una volta svegliato intorno alle tre del mattino.
Sono stati i rumori provenienti dall’appartamento al piano di sopra.
Non se nemmeno come definirli. Rumori o suoni. Quelli di questa notte erano bassi e intermittenti.
La prima cosa a cui ho pensato è stata la pulsazione di un cuore abnorme. Il battito lento dell’organo di un gigantesco pachiderma malato.
È andato avanti per quasi mezz’ora, impedendomi di tornare a dormire. Poi ho colto dei passi strascicati e il rumore di una porta, quella dell’ingresso probabilmente, che si apriva senza chiudersi.
Mi sono alzato per andare in cucina a bere dell’acqua. Mentre percorrevo il corridoio ho percepito ancora qualcosa. Come una voce che borbottava velocemente. Nulla di comprensibile, ovviamente. Mi pareva che arrivasse dalla camera singola del mio appartamento.
Il che è chiaramente impossibile.

13 ottobre
Sono sempre più convinto che non sia stata una buona idea accettare il lavoro.
I nuovi colleghi non si preoccupano di far trasparire la loro ostilità fin da quando alle otto del mattino metto piede in ufficio. Praticano nei mie confronti una guerriglia psicologica, le cui armi principali sono fugaci sguardi in tralice, sorrisini di scherno ed espressioni perplesse, di solito alle mie spalle, a ogni mia richiesta di spiegazioni sulle procedure aziendali, sul funzionamento del software gestionale o su qualsiasi altro aspetto della routine lavorativa.
Come se dopo due settimane dovessi avere già assimilato tutto.
Dovrei parlarne con Barberio, il responsabile dell’ufficio.
In fondo è grazie a lui, se mi trovo qui. O forse dovrei dire a causa sua.
Un favore che mi doveva dai tempi della scuola, mi ha detto quando mi ha chiamato per propormelo. Sostiene che gli ho fatto copiare il compito di matematica all’esame di maturità. Onestamente non mi ricordo di averlo fatto, anche perché in matematica sono sempre stato una schiappa, ma non mi sono impegnato più di tanto a contraddirlo.

16 ottobre
Giulia ha detto che vuole la separazione consensuale.
Mi ha chiamato mentre ero in pausa pranzo. Il suo avvocato contatterà il mio nel giro di un paio di giorni. Vuole anche almeno metà della quota di mantenimento di Edoardo che non ho ancora versato. Entro la fine della prossima settimana, ha detto.
Io ho continuato a masticare rumorosamente l’insalata di cereali che avevo preparato la sera prima, senza dire nulla. Lei mi ha insultato e ha riattaccato.
Nguyen continuava a fissarmi dal centro del monitor.
Accosciato come sempre all’imbocco rotondo della sua galleria sottoterra.
Indossa una casacca e pantaloni tinta blu scuro. Molto simile a una tuta da lavoro.
È l’immagine salvaschermo sul computer che mi hanno dato in ufficio. L’ho scaricata dalla pagina di Wikipedia dedicata ai “Viet-Cong”. La manovalanza della guerra di liberazione rivoluzionaria.
Nguyen è ovviamente un nome di pura fantasia.

17 ottobre
Stasera la caldaia si è spenta mentre mi facevo la doccia.
Sarà difficile trovare qualche tecnico disposto a muoversi nel fine settimana. Ho chiamato Barberio per comunicargli del guasto. Si è scusato e mi ha detto che avrebbe avvertito subito il caldaista.
È Barberio che mi ha trovato questa casa. Era l’appartamento dei suoi genitori. La signora, ottantaduenne e vedova, sette mesi fa è incespicata sul tappetino del bagno, frantumandosi il femore destro e la spalla sinistra. Da allora è parcheggiata in una casa di riposo.
Certo, per me si tratta di una sistemazione provvisoria, nell’attesa di trovare qualcosa di più funzionale, dopo che saranno entrati in conto i primi stipendi. Al momento sono a mio carico solo le bollette della luce, del gas e le spese condominiali.
Barberio aveva liberato un paio di scomparti dell’armadio a sei ante della camera matrimoniale e i primi tre cassetti di un grande comò in legno nero laccato, nel corridoio che portava al bagno. Il ripiano superiore del comò, così come buona parte delle mensole dei mobili e delle vetrinette della casa, è stipato di soprammobili, cofanetti, bomboniere e foto incorniciate della signora e del suo defunto marito.
I libri sono pochi. Per lo più si tratta di libri di ricette, assieme a qualche classico in vecchie edizioni cartonate e un’enciclopedia a fascicoli che veniva distribuita assieme un quotidiano una trentina di anni fa. Alle pareti, coperte da una tappezzeria floreale che doveva essere all’ultimo grido a metà degli anni ’60 sono appese altre foto, acquerelli di paesaggi e un paio di poster di Padre Pio.
È come vivere in una specie di museo morto.

18 ottobre
Svegliato intorno alle due da un grido. Proveniva dal piano di sopra.
Un grido rauco, inarticolato. A cui è seguito uno scroscio sordo come di acqua che viene fatta scorrere a lungo dal rubinetto.
Mi ero addormentato sul divano davanti alla televisione, imbacuccato in un plaid che odorava di muffa, trovato sul fondo dell’armadio della camera matrimoniale. Il divano è ancora avvolto nel cellophane, ma le molle del telaio sono sfondate e pigolano a ogni minimo movimento.
La partita che avevo cominciato a guardare era finita da un pezzo. Sullo schermo si agitavano come ossessi due cabarettisti di uno show comico in replica. Risate, forse registrate, partivano a ogni battuta.
Mentre l’acqua scorreva, ho sentito ancora del trapestio dal piano di sopra. Una porta sbattuta che è risuonata come un’esplosione nucleare.
Mi sono infilato a letto vestito.
Forse dovrei cercarmi da subito un’altra sistemazione.

20 ottobre
Oggi in ufficio, approfittando della pausa caffè dei colleghi, Barberio mi ha chiesto come stava andando.
Pensavo intendesse parlare del lavoro, invece voleva sapere della separazione.
Da separato si è preso a cuore la mia situazione ben più di quanto mi potessi immaginare. Negli ultimi quindici anni ci saremo visti quattro o cinque volte, a qualche cena di classe. L’ultima volta è stata un mese e mezzo fa al supermercato. Vicino al residence dove dormivo da qualche settimana, dopo che Giulia aveva preteso che me ne andassi da casa. Erano almeno settantadue ore che non parlavo con nessuno.
Così gli avevo raccontato tutto.
Forse solo per essere sicuro che il suono della mia voce fosse ancora quello che conoscevo. La stupidaggine fatta con una collega. L’ira di Giulia, i miei goffi tentativi di ricomporre la frattura e poi, come una specie di beffardo contrappasso, la crisi dell’azienda per cui lavoravo, l’avvio della procedura fallimentare e il licenziamento.
Mentre raccontavo l’avevo visto rabbuiarsi. Pensavo volesse elargirmi qualche sentenza moralistica. Invece mi aveva abbracciato. Tremava. Ci era passato anche lui, mi aveva detto. Stessa trafila, solo che non aveva perso il lavoro.
Ci eravamo scambiati il numero di cellulare.
Dieci giorni dopo mi aveva chiamato per offrirmi una casa e un impiego. Mi aveva raccontato quella storia del compito di matematica.
Intanto stasera il caldaista non è venuto. In casa comincia a fare veramente freddo.

21 ottobre
Stamattina la caldaia ha ripreso a funzionare.
Sono riuscito a fare lunga una doccia calda. Non è stata molto rilassante però, dato che temevo di ritrovarmi da un momento all’altro sotto un getto d’acqua antartica.
Ho comunque indugiato più del dovuto e sono stato costretto a uscire senza fare colazione.
Sul pianerottolo ho incrociato la mia dirimpettaia. È alta e magra, sulla settantina. Oggi navigava in un cappotto spinato grigio chiaro. Lo stesso colore dei suoi capelli. Nonostante fossero solo le otto e dieci era già di ritorno dal mercato con due borse piene di verdura. Verze e cicoria soprattutto. Patate e porri. E un paio di bottiglie di Martini rosso.
L’ho salutata con un sonoro “Buongiorno” e lei si è limitata a rispondermi con un cenno del capo.
Le ho chiesto se per caso sapesse chi abitava al piano di sopra. Lei mi ha guardato di traverso, mi pareva infastidita. «Una famiglia straniera, mi pare.» ha risposto mentre iniziava a girare la chiave nella serratura per aprire la porta.
Stavo per chiederle se anche lei sentiva i rumori nel cuore della notte, ma si già era infilata dentro casa, veloce come una lucertola.

22ottobre
Giulia mi ha chiamato.
Questo fine settimana non potrò vedere Edoardo. Andrà a Gardaland con sua cugina. Posso recuperare durante la settimana, dice. Ignorando, o forse fingendo di ignorare, che lavoro da troppo poco tempo per aver già maturato dei giorni di ferie.
Rientrando a casa ho di nuovo studiato il pannello del citofono. Trentadue campanelli, corrispondenti ad altrettanti appartamenti, suddivisi in quattro scale. Ho provato anche a intuire quale fosse il campanello degli inquilini del piano di sopra. C’erano solo numeri.
Anche l’ispezione delle cassette della posta arrugginite che tappezzano la parete a destra dell’ingresso ha dato lo stesso esito fallimentare.

23 ottobre
La caldaia si è bloccata un’altra volta.
Stamattina Barberio mi ha detto che sta cercando di rintracciare il tecnico, ma pare diventato irreperibile. Nel pomeriggio è entrato in ufficio con un piccolo scatolone. Dentro c’era una stufetta elettrica. Lo ha posato accanto alla mia scrivania.
I colleghi si sono fermati a godersi la scena. L’ennesima elemosina, avranno pensato. Con la coda dell’occhio ho colto risatine di scherno germogliare sulle loro labbra.
Barberio si è scusato di nuovo. Poi ha notato il salvaschermo.
C’era Nguyen, con i suoi zigomi alti e scavati.
Le unghie dei piedi maciullate sopra infradito con la suola di legno.
Il fucile che imbraccia non è il classico kalashnikov. È un vecchio modello. Francese, probabilmente. Bottino di guerra. La baionetta è inastata e girata sotto la canna.
Barberio ha sorriso. Ma c’era una sorta di sconforto che gli balenava in fondo agli occhi.
Si è scusato ancora per la caldaia ed è uscito lasciandomi in pasto ai colleghi.

25 ottobre
Di nuovo, il cuore pulsante della bestia.
Alle tre e diciassette del mattino. A svegliarmi però non è stato lui. Il battito del cuore ha chiuso una lunga serie di lavori. Raffiche intermittenti di colpi di martello. Ronzii acuti, come di un trapano o forse di un avvitatore. Ante e cassetti sbattuti. Conciliaboli in una lingua imbottita di suoni lunghi e miagolanti, e poi qualcosa che ricordava molto il pianto sommesso di un neonato.
È iniziato tutto verso le due e mezza.
Sono corso in cucina e ho afferrato la scopa. Ho iniziato a colpire il soffitto con l’estremità del manico, nelle pause tra quelli che sembravano i colpi del martello e i presunti giri di trapano.
Volevo anche gridare qualcosa, ma poi ho pensato alla mia voce. A come sarebbe suonata in quel mausoleo immerso nel buio e nell’odore di chiuso. Mi sono sentito ridicolo.
Allora ho pensato di salire e di presentarmi alla loro porta. Il senso del ridicolo è salito alle stelle. Ho camminato per almeno dieci minuti su e giù per il corridoio, come una sentinella in attesa del cambio alla fine del turno di guardia, finché i rumori si sono quietati.
Quando il cuore del pachiderma ha cominciato a battere, coprendo il lamento del neonato, ho messo via la scopa e mi sono infilato a letto sotto la doppia coperta.
Devo andarmene quanto prima da questa casa.

26 ottobre
Dopo il lavoro ho visto il mio avvocato.
Ha voluto che ci incontrassimo al bar sotto il suo studio, in centro. Mentre buttava giù aperitivi senza soluzione di continuità, mi spiegava i prossimi passi per definire la situazione. Mi ha consigliato di provvedere quanto prima versare il mantenimento di Edoardo. Per smussare gli spigoli, ha grufolato, riempiendosi la bocca di salatini. Certo, ho detto io. Anche se al momento credo di non avere più di duecento euro sul conto.
Poi mi ha detto che ancora non capiva perché avessi deciso di confessare tutto a mia moglie. Se come gli avevo raccontato era stata una sbandata, un momento di follia durante una trasferta di lavoro, perché lo avevo raccontarlo a Giulia? Senza aspettare la risposta, aveva scosso la testa e poi si era scolato il terzo Campari tutto d’un fiato.

27 ottobre
Giornata tutto sommato tranquilla.
Di rientro dal lavoro, prima di salire a casa ho fatto una passeggiata attorno al condominio.
È una gigantesca scatola da scarpe color verde oliva, circondata da altre scatole da scarpe marroni, beige o azzurre, in quello che fino a vent’anni fa era un lindo e ordinato quartiere popolare.
Ho controllato di nuovo il pannello del citofono. Solo la metà dei trentadue campanelli ha un cognome associato. Quelli che sembrano italiani non sono più di quattro o cinque. C’è da scommettere che sono quei pochi a non avere una antenna parabolica sul terrazzo e una macchina con più di quindici anni parcheggiata nel box auto.

28 ottobre.
Finalmente, il tecnico della caldaia è venuto.
Ha riparato il guasto, ma ha detto che bisognerebbe sostituire altri componenti per evitare che il problema si ripresenti. Ne parlerà col padrone di casa.
Ho notato degli strani segni sulle pagine del quaderno dove sto scrivendo queste note. Sembrano lettere di un alfabeto remoto, quasi delle rune, scarabocchiate qua e là ai margini dei fogli. Non ricordo affatto di averle tracciate. Né di aver lasciato il quaderno aperto sul tavolo della cucina ieri sera.
Di solito mi metto a scrivere molto tardi. So che è il momento giusto quando comincio a indovinare profili di volti umani nelle pieghe delle tende.
Ieri sera dal piano di sopra nessun rumore. Finito di scrivere, sono stato in ascolto, per circa due ore. Poi ho riposto il quaderno nel primo cassetto della credenza. O almeno credo di averlo fatto.
Mentre mi addormentavo avevo ripensato a Nguyen.
In testa porta un casco, anche se assomiglia più a un’insalatiera, probabilmente di corteccia di bambù intrecciata. Dipinta anch’essa di blu scuro. Il sottogola è di nudo spago. Appesa al collo, una bisaccia di tela per le pallottole, le razioni di riso, qualche bustina di sulfamidici, garze e medicinali di primo soccorso.

1 novembre
Il cellulare trillava e vibrava furiosamente.
La sveglia, ho pensato mentre mi sfilavo dal bozzolo di lenzuola e coperte per allungare un braccio sul comodino e raggiungere il telefono. Non ho sentito la sveglia. Questo è l’ufficio. Non aspettavano altro quegli stronzi.
Invece era Giulia.
Dopo una salva di insulti, mi ha chiesto dove fossi. Dove cazzo fossi, per essere precisi.
Sono le undici e tre quarti, ha strillato. Tuo figlio sono tre ore che ti aspetta. Stronzo. Coglione. Testa di cazzo. Poi ha riattaccato.
Per la festività di Tutti i Santi avevo promesso a Edoardo che lo avrei portato al circo. Avevo comprato i biglietti per lo spettacolo del mattino. Però avevo dimenticato di mettere la sveglia e avevo dormito fino quasi a mezzogiorno. La cronologia delle chiamate perse ne segnava quindici. Tutte dal numero di Giulia. Come avevo fatto a non sentirle?
Seduto sul bordo del letto, ho provato a richiamarla, ma dopo due squilli ha staccato il cellulare. Ho pensato di mandarle un messaggio. Un vocale. Per scusarmi direttamente con il bambino. Sono rimasto quasi cinque minuti con l’icona del registratore pigiata. Ogni volta che mi decidevo a cominciare, sentivo l’aria mancarmi nella gola e la nausea invadermi lo stomaco.
Ho buttato il cellulare e mi sono rimesso a dormire.
Ho sognato mio figlio. Nel sogno pareva poco più che neonato. Mi trotterellava incontro sul vialetto di una casa che non era la nostra vera casa, anche se Giulia, ferma sotto al portico, si sbracciava per salutarmi sorridendo. Dopo avermi raggiunto, Edoardo si sollevava sulle gambette paffute per abbracciarmi. Gli accarezzavo la testa e lui uggiolava. Aveva il corpo e le zampe anteriori un cane. Abbaiava felice, sbavava e mi girava intorno.
A svegliarmi però sono stati i lamenti che provenivano dal piano di sopra. Come se qualcuno stesse sbadigliando rumorosamente, a ripetizione. Mancavano due minuti a mezzanotte. Avevo dormito altre dieci ore.

2 novembre
Sono rimasto ancora a letto, per tutto il giorno.
Verso le otto, dopo aver comunicato all’ufficio che non mi sentivo bene, ho staccato di nuovo il telefono fino a sera. Riaccendendolo ho trovato una raffica di messaggi e chiamate perse. Da parte di Barberio. Poi anche dal mio avvocato, da un paio di numeri sconosciuti e da Giulia.
Domani risponderò a tutti, ho pensato. Domattina chiamerò il medico. Accuserò un’influenza stagionale massiccia. Dolori alle ossa, naso che cola. Disturbi intestinali, magari. Potrei prenotare anche degli esami clinici.
La vescica mi doleva. Era piena da oltre ventiquattro ore. Avrei dovuto alzarmi e svuotarla. Invece mi sono girato dall’altra parte e mi sono riaddormentato.
Quando mi sono svegliato che era già note inoltrata. Il letto era fradicio di piscio. Ho appallottolato pigiama, lenzuola e coperte e le ho gettate nella cesta della biancheria sporca in bagno, ripulendomi poi come meglio potevo.
Per il resto della nottata sono rimasto sul divano, avvolto in un plaid, bevendo acqua minerale e prendendo appunti. La tivù a volume bassissimo su un canale di televendite, pronto a captare il minimo rumore proveniente dal piano di sopra.
Così fino al mattino.

3 novembre
Nessuno è solo quanto Dio. E se fossimo noi il suo passatempo?
È la frase che ho trovato sul quaderno, subito dopo le note relative alla giornata di ieri. Non ricordo di averla scritta. Anche la calligrafia, mi è familiare solo in parte.
Stamattina Barberio mi ha telefonato. Ho temporeggiato, dicendo che ora stavo avendo dei dolori, simili a coliche. Si è detto molto dispiaciuto, ma si è raccomandato di mandare in azienda il certificato del medico al massimo entro domani.
Gli ho detto che nel pomeriggio avrei chiamato il medico, poi ho passato buona parte della mattinata a catalogare lo scatolame che ho trovato in uno dei mobili della cucina che non avevo mai aperto. Lattine di fagioli borlotti, cannellini, bianchi di Spagna. Lenticchie. Ceci. Filetti di sgombro. Filetti di tonno. Olive. Capperi. Peperoni sottolio. Pomodori pelati. Confezioni di pan carrè. Farina doppio zero. Caffè in polvere. Tutta roba scaduta da mesi se non da anni. In alcuni casi ancora con l’etichetta adesiva del prezzo in lire. Avevo indossato dei pantaloni di fustagno, trovati in uno degli scomparti dell’armadio che non erano stati sgomberati. Dovevano appartenere al papà di Barberio. Sulle spalle, a mo’ di poncho, il plaid della sera prima.
Sono rimasto sul divano per tutto il pomeriggio. A cena ho aperto una scatola di fagioli cannellini accompagnandoli con un fetta di pan carre’. Era tutto scaduto da almeno cinque anni. Il pan carrè era croccante. Era come mordere un foglia di platano secca. Sapeva di polvere e muffa.
Nel giro di un’ora ho vomitato tutto. Mentre svuotavo l’intestino, curvo sulla tazza del cesso, mi era parso di sentire dei rumori dal piano di sopra.
Come di qualcuno che rideva.

4 novembre
Sono rimasto incollato allo spioncino dell’uscio per tutta la giornata.
Arrivata da chissà dove, la convinzione che gli inquilini del piano di sopra sarebbero passati sicuramente dal pianerottolo mi si era piantata in mezzo al cervello, come un chiodo nel polso di Cristo Nostro Signore. Amen.
Dall’alba fino quasi al tramonto, in piedi, attaccato al portoncino, il plaid avvolto intorno al busto e i piedi nudi piantati sulle piastrelle fredde. Una caraffa a portata di mano, in modo da non dovermi allontanare dal mio posto si osservazione per pisciare.
Il tempo è scivolato via come sabbia umida tra le dita. Una qualità viscosa di tempo. Sfuggiva dalle mani e gocciolava a terra, pastoso, formando stalagmiti sghembe pronte a essere inghiottite dalla risacca di un oceano immaginario.
Verso sera mi sono dovuto spostare in bagno per svuotare la caraffa.
Quando sono tornato allo spioncino, sul pianerottolo c’era Barberio. S’è attaccato al campanello. Poi ha bussato come se dovesse buttare giù la porta. Ha chiamato il mio nome. All’inizio con un tono che mi pareva preoccupato. Poi l’intonazione s’è fatta più aggressiva. Sono rimasto di sale, dietro la porta, in apnea. Sperando che non avesse portato con sé il secondo mazzo di chiavi. Quando l’ho visto rovistarsi le tasche del soprabito, ho temuto il peggio. Allora ho ripensato a Nguyen nel suo buco. Con la sua insalatiera calcata in testa. Un guerrigliero comunista vietnamita che difende l’accesso al suo tunnel con le unghie e con i denti. Devo trovarlo dentro di me. Intendo dire l’abito mentale. L’attitudine. La coerenza strenua ai limiti dell’eroismo. L’abnegazione a una causa.
Senza staccare gli occhi dallo spioncino ho soppesato la caraffa di vetro che avevo in mano. Era sufficiente a fare un discreto danno con un colpo ben assestato, ma invece delle chiavi Barberio ha tirato fuori una penna e un’agendina. Ha strappato una pagina, ci ha scritto sopra qualcosa e l’ha passata sotto la porta.
Chiamami appena puoi! senza certificato da domani sarai assente ingiustificato. B.

5 novembre
La malattia è l’amore di due creature estranee che cercano di unirsi.
Giulia è stata quanto di più estraneo potesse tentare di unirsi a me. Quando avevamo iniziato a frequentarci mia madre e mio padre non avevano visto di buon occhio quella ragazza bellissima e viziata, piena di manie e pretese altoborghesi, ma poi nell’arco di un anno e mezzo se n’erano andati entrambi. Un infarto per lui e un cancro ai polmoni diagnosticato troppo tardi per lei.
Che Giulia conosca modi raffinatissimi per comportarsi come una stronza arrogante è difficile da negare. Meritava quello che le ho fatto? Nessuno lo merita mai davvero. Nonostante tutte le piccole umiliazioni che mi aveva inflitto prima e soprattutto dopo il matrimonio. Stilettate fatte di silenzi e sguardi, soprattutto. Non volevo un figlio. Non lo avevo mai voluto. Ma dopo quasi due anni di guerra fredda avevo ceduto al suo ricatto. Pavido coglione votato alla stabilità a tutti i costi, mi ero risolto a trasformarmi in quello che non avrei mai immaginato di poter essere: un genitore amorevole. O quantomeno a provarci.
Oggi pomeriggio ho acceso per qualche minuto il cellulare. Negli ultimi tre giorni lei mi aveva tempestato di chiamate e messaggi. Il più leggero suonava come «Ci vediamo in tribunale. Sei un pezzo di merda.»
Lo sai che nostro figlio è un cane? le ho scritto. Ho corretto “nostro” con “tuo”. Poi però ho cancellato il messaggio senza inviarlo.
Ho tolto la scheda dal telefono e l’ho ingoiata. L’ho mandata giù a secco, senza nemmeno un goccio d’acqua. In cucina ho preso un batticarne dal cassetto degli utensili e ho fatto a pezzi il cellulare.
Verso sera, mi è sembrato di udire dei rumori provenire dal ripostiglio. Ho controllato, ma ovviamente non c’era nessuno.

6 novembre
Ho perso lucidità, lo devo ammettere.
Distruggere il telefono e ingoiare la scheda non è stata una buona idea. Oramai riesco a dormire solo per periodi intermittenti che diventano sempre più brevi. Pochi minuti, immagino. Il divano è scomodo e il salotto è la stanza più fredda della casa.
La caldaia mi ha piantato in asso di nuovo, non saprei dire da quanto. La stufetta che mi aveva dato Barberio si è fulminata dopo un paio d’ore di funzionamento.
Ho smesso di mangiare da tre giorni. Il frigo è vuoto e non mi fido a pescare altro dalla necropoli dello scatolame che ho ispezionato qualche giorno fa.
Ma ho deciso che stasera mi darò una ripulita. Scalderò dell’acqua per lavarmi. Mi farò la barba. Domani tornerò al lavoro. Mi scuserò con Barberio e con i colleghi. Poi contatterò Giulia. Le manderò una email magari. Mi scuserò anche con lei. Ricominceremo a parlare. Arriveremo a un accordo, ne sono certo. Poi farò la spesa, prenderò frutta e verdura fresca. Uova, formaggio e della carne. Anche un bottiglia di vino buono. Domani sera mi cucinerò un pasto come si deve. Riprenderò in mano la mia vita. Il sole sorgerà ancora.
Adesso invece piove. Il cielo grigio lascia fluire una pioggia fitta e sottile, che immagino fredda. Il vento la spinge contro le lastre delle finestre. Le gocce esplodono contro il vetro con un ticchettio ovattato. Le sagome degli altri condomini si intravvedono appena nella luce del pomeriggio che si va facendo sempre più fioca.

7 novembre
Un’improvvisa sensazione di soffocamento.
Questa notte mi sono svegliato nel buio del salotto, tossendo. La gola mi bruciava. Il petto e il collo mi dolevano. Ansimando mi sono messo a sedere sul divano. Il cellophane ha rumoreggiato e le molle hanno pigolato acutamente. Catturavo l’aria stantia del salotto con la bocca aperta e proprio allora ho avuto la netta impressione che qualcuno fosse appena sgattaiolato fuori dalla stanza attraverso la porta semiaperta. Passi ovattati che si sono allontanati, in direzione della camere o del ripostiglio. In un bagno di sudore da panico, ho atteso cinque minuti prima di alzarmi e chiudere la porta del salotto. Poi sono tornato sul divano. Mi ci sono raggomitolato sopra, la coperta tirata sopra la testa. Ho pensato di chiudermi dentro. La porta però non ha la chiave. Potevo barricarla trascinandoci davanti lo scrittoio in stile Settecento che indugia, coperto di polvere, all’angolo opposto del salotto. Quando ho accennato ad alzarmi di nuovo la testa ha cominciato a girarmi fortissimo, mentre le gambe mi tremavano, come se le ossa fossero di burro fuso. Ho passato il resto della nottata sul divano. Le ginocchia al petto e gli occhi sbarrati nel buio, guardando in direzione della porta.

8 novembre
Ho trascorso così anche buona parte della mattinata.
Verso mezzogiorno ho deciso di avventurarmi in bagno. Ho aperto la porta e ho ispezionato il corridoio deserto.
Solo allora ho sentito i rumori. Un cigolio intermittente e cadenzato a cui si intervallavano grugniti, mugolii e lamenti in un crescendo sonoro inequivocabile. Al piano di sopra qualcuno stava scopando rumorosamente.
Dovrei salire, mi ero detto, anche se la testa mi pulsava e la vista era annebbiata. Ora che è giorno. E farla finita una volta per tutte.
Invece dopo essere stato in bagno, sono tornato in salotto. I rumori al piano di sopra continuavano. Raggiungevano l’acme per poi attutirsi gradualmente e riprendere a crescere, con la regolarità di un macchinario industriale in pieno ciclo di produzione. Così per almeno un altro paio d’ore
Sul tavolinetto davanti al divano c’è la foto del padre di Barberio in una cornice d’argento. A figura intera, in divisa. Postino. O ferroviere. Magari usciere di qualche ente parastatale. L’espressione è arcigna, appena mitigata da un’ombra di bonomia meridionale. Da qualche giorno ho l’impressione che voglia dirmi qualcosa. Forse lui sa. O crede di sapere. Anche se un ictus se l’è portato via quindici anni fa.
Poi, nonostante il frastuono che arrivava dal piano di sopra, ho sentito il rumore di una chiave che iniziava a girare nella toppa della porta d’ingresso.

9 novembre
Era Barberio.
Quando aveva aperto la porta d’ingresso, chiamando ad alta voce il mio nome, mi ero alzato dal divano. Lui aveva tossito prima di borbottare qualcosa a bassa voce, mi pare a proposito della puzza di chiuso. Poi mi aveva chiamato ancora. L’avevo sentito muoversi verso la cucina e ne avevo approfittato per scivolare in corridoio. Avevo puntato al ripostiglio. Mi ci ero infilato dentro, cercando di fare meno rumore possibile con la porta.
È un bugigattolo non più grande di una cabina telefonica, stipato di scope, secchi, stracci, flaconi di detersivi e di altri prodotti per la pulizia della casa. E di scatole da scarpe, che arrivano fino quasi al soffitto in torri parallele e pericolanti. Ero riuscito a malapena a sedermi sul pavimento. Avevo trattenuto il respiro, mentre tendevo l’orecchio a quel che stava succedendo nell’appartamento, nonostante i rumori martellanti dell’eterna scopata provenienti dal piano di sopra rendessero il compito più difficile.
Barberio intanto stava spalancando le porte delle stanze, ripetendo con sempre maggiore veemenza il mio nome. Aveva indugiato in salotto, aprendo le finestre e sbloccando gli scuri. In camera, alla vista dei materassi nudi e macchiati di piscio, aveva bestemmiato la Madonna. Aveva spalancato le finestre anche lì, poi aveva preso a camminare su e giù con per il corridoio, fino a che non si era fermato davanti al ripostiglio. Ne potevo intuire la sagoma dietro il pannello di vetro smerigliato della porta.
Mi ero raggomitolato sotto il plaid, cercando di farmi piccolo quanto un granello di polvere. Barberio aveva aperto la porta. Rannicchiato sotto il plaid, sforzandomi quasi di sprofondare oltre le piastrelle del pavimento, ne potevo intuire il respiro un po’ affannoso. Poi però qualcosa aveva attirato la sua attenzione. Un colpo sordo, o magari un rumore di passi. Avevo sentito che si allontanava in direzione della cucina.
“Oh, ma allora ci sei!” aveva esclamato mentre ci entrava. Subito dopo c’era stato un suono secco, come di un legno che si spezza. Forse era solo la porta che sbatteva. Poi più nulla.
Anche al piano di sopra, intanto, era tornato il silenzio.

10 novembre
Prima di muovermi dal ripostiglio ho aspettato.
Almeno altre due ore. Immobile, sotto la coperta, in posizione fetale. Respirando la polvere del pavimento. Quando mi sono rialzato e mi sono affacciato in corridoio il vuoto sonoro era assoluto. Sono tornato in salotto. Le finestre aperte facevano entrare il freddo pungente del pomeriggio ormai avviato a diventare sera. Le ho chiuse e mi sono seduto sul divano. Battevo i denti.
Ma devo aver dormito comunque. Almeno tre ore. A svegliarmi, che ormai era notte, è stato Nguyen. Me lo sono ritrovato seduto di fianco a me, nella sua divisa azzurra. Il casco in testa e la bisaccia a tracolla. Gli occhi piccoli e la faccia rugosa come il guscio di una noce. Mi ha fatto cenno di tacere, poi mi ha aiutato ad alzarmi e mi ha accompagnato in bagno. Aveva già preparato numerose pentole d’acqua calda. Mi ha dato una mano a lavarmi e poi a radermi. Un pigiama di flanella pulito mi aspettava nella cameretta singola. La testa mi girava e il silenzio assoluto che regnava nell’appartamento mi riempiva le orecchie di stoppa bagnata. Sempre senza parlare, Nguyen mi ha messo a letto. Poi con un cenno mi ha fatto capire che si metteva di guardia, all’ingresso.
Mi sono avvoltolato tra le coperte, le braccia conserte fino quasi a stritolarmi il torace. Cercando di sentirmi come in un bozzolo. Ridurmi a una larva. Immaginare la pelle che si disfaceva in strisce di carne vizza, come foglie secche. Imputridire prima dall’interno. Un falso movimento che rivela la precarietà del tutto.

11 novembre
Intorno alle dieci del mattino, il suono acuto e prolungato del campanello.
Sulla soglia, una donna. L’ex moglie di Barberio. L’ho riconosciuta mentre, senza staccare gli occhi dallo spioncino, facevo scattare le mandate della porta. La ricordavo a qualche cena di classe, quando ancora ci andavo e lei e Barberio non si erano ancora separati. Era invecchiata. Ma in fondo non lo siamo tutti?
Ho aperto la porta, il fiato corto per lo sforzo di restare in piedi e sbloccare i chiavistelli della porta. Sono almeno dieci giorni che non mangio. Sopra il pigiama, che mi stava incredibilmente largo, avevo indossato una golf di lana rosso. Probabilmente apparteneva anche quello al papà di Barberio.
La donna mi ha squadrato per qualche secondo, interdetta. Si è scusata del disturbo e mi ha chiesto se per caso avessi notizie del suo ex marito. Quella mattina avevano appuntamento dall’avvocato per chiudere alcune pratiche relative al divorzio, ma lui non si era presentato, e facendo un paio di telefonate lei aveva scoperto che l’uomo da due giorni non si faceva vedere in ufficio e non rispondeva al telefono. Le ho detto che ero in malattia da due settimane e non lo sentivo da almeno cinque giorni. La donna ha sospirato. Un sospiro lungo e sottile, che era più un fremito di esasperazione.
Mi ha rivolto un ultimo sguardo perplesso e mi ha salutato, lasciandomi un biglietto da visita plastificato con il suo numero di telefono, pregandomi di chiamarla se avessi avuto qualche notizia. Ho annuito con sincera convinzione, aggiungendo un “Non si preoccupi” che ho cercato di non far suonare di circostanza. Poi ho richiuso la porta. La testa mi girava vorticosamente. In bocca un perenne sapore acre di frutta andata a male.
Sbucato da chissà dove, Nguyen è arrivato a sostenermi.

12 novembre
Empatia.
Esprime la capacità di identificarsi emotivamente con un’altra persona, la consapevolezza dei pensieri, dei sentimenti, dello spazio interiore di chi ci sta di fronte.
Che smette di essere semplicemente “l’altro”, ma diventa qualcosa di unico e di differente dal resto della realtà che ci circonda; qualcuno, anzi Qualcuno in cui diventa possibile rispecchiarsi e riconoscersi. Dovrebbe essere ciò che ci impedisce di pensarci esclusivamente come animali razionali. Esseri socievoli, non fosse altro che per perseguire in maniera più intelligente i nostri scopi egoistici. Dovrebbe essere ciò che ci rende umani, almeno credo.
È questo l’inizio della lettera a Giulia che ho tentato di scrivere oggi. Volevo scriverle qualcosa che la toccasse. Mi è costata quasi tre ore di lavoro. Pagine e pagine di agenda imbrattate e strappate, che poi ho masticato e ingoiato per placare gli spasimi della fame.
Mentre scrivevo mi è diventato duro, pensando al suo profumo.
Erano mesi che non capitava. Fuori ha iniziato a piovere. Allora ho provato a masturbarmi. Inutilmente.
Poi ho immaginato di averla qui a cena. Un meraviglioso banchetto a lume di candela a base di scatolame scaduto e acqua di rubinetto.
Prima di vomitare tutto, ci sfioreremmo le mani. La luce sarebbe bassa. Incredibilmente densa. Come miele. Tutto fluirebbe e scorrerebbe attraverso i nostri nervi, le le nostre ossa, e i suoi capelli, tessuti nelle trame di un solstizio anticipato.
E nessun rumore dal piano di sopra.
Così dovrebbe andare.

13 novembre
Nessuno è solo quanto Dio. E se fossimo noi il suo passatempo? dice Ngyuen.
In un misto di italiano, francese e vietnamita, che in questi giorni ho scoperto di capire alla perfezione, mi ha racconta di quel che ha visto e fatto durante la guerra.
I colori del tramonto sul delta del Mekong. I monsoni. Il generale Giap. Un pattuglia di soldati regolari dell’esercito sud vietnamita che stupra sua sorella di quattordici anni. I bufali al pascolo nelle risaie.
Mentre se ne sta in salotto, il casco ben allacciato e gli zoccoli di legno infilati ai piedi nudi e lerci, mi racconta del primo americano che ha ucciso. Un marine rimasto isolato durante un pattugliamento. Gli ha fracassato la spalla destra con un colpo di moschetto. Quello cui suo nonno dava la caccia alle scimmie. Gli ha trapanato la spalla da quasi trenta metri e poi lo ha finito a colpi di falcetto. Mentre racconta, mima le azioni con il martello che tiene tra le mani.
È con quello che ha messo a dormire Barberio. Un solo colpo secco. Una fucilata in mezzo alla fronte, che gli ha finalmente regalato il sonno dei giusti. Sul pavimento delle cucina, il suo corpo sta cominciando a marcire. La casa si sta riempiendo di una puzza dolciastra.
Nguyen dice che era l’odore che ha sentito ogni mattina, per anni. Per tutto il tempo della guerra e anche dopo che gli americani se ne erano andati. Un tanfo orribile. E così forte da farti vomitare le tue stesse budella. Nguyen dice che questo odore ci ricorda ciò che alla fine siamo a destinati a diventare tutti. E che una volta che lo hai sentito, non riesci più a togliertelo dalle narici.
Però dice che se impari a sopportarlo, il sentiero che porta alla vittoria non può che essere tuo.

Avevo lasciato l’accampamento poco prima di mezzogiorno, con il sole che batteva come un fabbro nubiano su un’incudine moabita.
Effettivamente non era stata una grande idea partire a quell’ora, ma Lui era fatto così. Quando chiamava bisognava rispondere e essere preparati a qualsiasi cosa.
Grondavo come una fontana, scivolando sui ciottoli del sentiero che diventava sempre più ripido via via che saliva.
Era colpa della suola di cuoio mal conciato dei calzari. E della tunica di lana, che mi impicciava non poco sulle balze scoscese che conducevano alla cima, come il lungo bastone nodoso, che avevo acconsentito a portare con sé più che altro per placare le insistenze di Miriam e Aronne.
Guardai a valle, verso le tende ammassate in disordine attorno alla sorgente dove avevamo piantato il campo la sera prima. Da quell’altezza e distanza gli uomini, le greggi e le bestie da soma parevano formiche.
Formiche che da qualche tempo non facevano che mugugnare.
Perché dopo tre mesi di vagabondaggi nel deserto, anche se nessuno, io per primo, aveva il coraggio di dirlo apertamente, era palese che ci eravamo persi.
Il terreno divenne sempre più franoso. Iniziai a risalire una cresta sottile, friabile come gesso. Per farlo gettai via il bastone, che precipitò verso il basso rimbalzando sulle rocce. Potevo usare entrambe le mani per aiutarmi nella salita, e soprattutto per escoriarmi le dita sugli spigoli delle rocce a cui mi appigliavo. Per ogni passo che facevo in avanti ce n’erano due indietro e varie imprecazioni, che circumnavigavano con sapienza la bestemmia, anche se già soltanto per quello, Lui si sarebbe irritato.
Ormai mancava poco alla vetta.
Cosa mi avrebbe accolto?
L’altra volta m’era trovato di fronte un cespuglio in fiamme, che parlava con voce profonda e rimbombante.
«Porta la tua gente fuori dall’Egitto!» dice il cespuglio.
«Ma il Faraone…» dico io.
«Tu organizzati, al resto ci penso Io.»
E ci aveva pensato bene. Piogge di rane. Nubi di locuste e altre amenità. E poi quel macello con i primogeniti, che al solo pensarci mi si rizzano ancora i capelli sulla nuca. Il capolavoro però è stato il passaggio del mare, con le muraglie d’acqua che poi si richiudevano sui carri degli egiziani e li spazzavano via proprio come formiche.
Che potevi fare quando tanta potenza ti convocava, se non abbassare orecchie, occhi, coda e obbedire?
Finalmente mi issai oltre la sommità della cresta.
La cima del monte era piatta come una tavola. Un baldacchino di foglie di palma intrecciate riparava un sedile di legno e tela colorata. Seduto c’era, Lui, e che fosse Lui non c’erano dubbi, che come mi vide mi chiamò per nome, facendo segno di avvicinarmi.
«Alla buon ora!» mi apostrofò. La voce non rimbombava come quella che anni prima proveniva dal cespuglio. Tolse i piedi da una specie di scatola di un materiale duro e lucido, che teneva davanti al suo sedile, di cui sollevò il coperchio tirandone fuori un un piccolo cilindro di metallo variopinto, che mi porse con un sorriso.
“Oh YAHW…” feci per dire, ma mi fermai appena in tempo. Il cilindro di metallo mi bruciava tra le mani per quanto era freddo.
Anziché rimproverarmi si alzò e mi invitò a sedersi al posto suo.
«Riposati» disse con tono che mi sembrò fin troppo premuroso.
Obbedii.
Indossava una strana casacca gialla con le maniche corte, decorata a fiori e dei mutandoni al ginocchio color blu mare.
Mi appoggiò entrambe le mani sulle spalle. Lo guardai negli occhi.
Pensavo non sarei mai riuscito a sostenere quello sguardo. Che nessuna creatura mortale fosse in grado di farlo. Invece fu più o meno come guardare dentro una pozza d’acqua di sorgente un po’ torbida.
«E se ti dicessi che è finita?»
«Che cosa?»
«È che ho perso un po’ il filo.» Abbassò gli occhi mentre lo diceva.
Si accosciò davanti alla scatola e tirò fuori un altro cilindro colorato.
«Come sarebbe a dire?»
«Sarebbe a dire che forse è meglio se mi prendo una pausa.»
Tirò una specie di anello di metallo su una delle estremità del cilindro, schiudendovi così una piccola apertura, a cui accostò le labbra. Capii che nel cilindro doveva esserci dell’acqua o qualche altro liquido per dissetarsi.
Intuii che la mia espressione doveva apparirgli ancora confusa.
«Che resti tra noi, ma la fregatura è il libero arbitrio che vi ho concesso. Bella trovata, per carità di Me, ma complica tutto a livelli inimmaginabili. Perché uno comincia sempre con le migliori intenzioni. Crea, costruisce, assembla meraviglie di cui si compiace. Poi però si accorge che le cose piegano diversamente da come aveva pensato. E più cerca di riprendere le fila e più tutto gli si ingarbuglia.»
Balbettai qualcosa, ma niente di sensato.
«È che a volte sono convinto di aver sbagliato tutto. Di nuovo».
«Di nuovo?»
«Ricordi la storia di Noè?»
Ricordai. E deglutii.
«Però questa volta non mi va di azzerare tutto. Se avessi un terapista, mi direbbe che aumenterei la frustrazione oltre la soglia di guardia» riprese lui.
«E allora?» chiesi.
«E allora niente. Aspetto. Lascio fluire. Hai presente il blocco dello scrittore? L’unico modo per uscirne è fare altro.»
«Ma la mia gente laggiù?» domandai «Ho detto loro che ci sei Tu con noi…»
«Ritornerò prima o poi, non temere. Ma nel frattempo, tu farai benissimo anche da solo» ribatté Lui.
«Ma chi mai sono io per confortarli? Indirizzarli? Educarli?»
Lui si alzò.
«Allora, tra un po’ te ne torni giù e intanto dici loro che ti ho parlato, che è tutto a posto. E poi che ti ho dato anche una lista di precetti da seguire per farmi contento. Tipo: “Siate sinceri”, “Non fregatevi le pecore a vicenda”, “Trattate bene i vostri genitori”. Cose di buon senso. Vedi tu quali. Non più di dieci, direi. Magari scolpiscile sulla pietra, che fa sempre un certo effetto. E quando parli: voce impostata e tono grave. E hai presente quel bastone lungo e nodoso? Quello con cui hai separato il mare e fatto sgorgare l’acqua a Refidim? Mi raccomando, tienilo sempre con te quando parli in pubblico: gran movimenti ieratici, e battilo per terra ogni tanto, tipo quando detti una regola o un comando, o se vuoi ribadire un concetto importante.»
«Ma come potrò guidarli alla Terra Promessa?»
«Navigatore satellitare» mi spiegò porgendomi un piccolo scrigno nero e piatto. «È già impostato» Una voce femminile vagamente metallica cominciò a gracchiare da dentro lo scrigno, la cui parte superiore si illuminò, mostrando quella che pareva la mappa del monte e della regione circostante: «Tornare indietro di trentacinque cubiti, quindi girare a sinistra e cominciare a scendere…»
«Ma io…»
«Magari ci vorrà un po’ più tempo del previsto, ma vedrai che andrà tutto benissimo» tagliò corto Lui.
A dire il vero non pareva molto convinto, ma dopo meno di un battito di ciglia era sparito, assieme al baldacchino, alla sedia e a tutto il resto.
Qualche ora più tardi, mentre inziavo la discesa, guidato dalla voce metallica e dalle prime stelle della sera, pensai che innanzitutto dovevo recuperare quel dannato bastone.

ONLY SHALLOW (My Bloody Valentine 1991)
Questa arriva da lontano.
Un complementare del terzo anno: “Storia dell’Europa Occidentale”.
E niente da dire; lei è carina, slanciata, trucco discreto, corti capelli castani e completino serio, ma non troppo.
Parliamo.
Così, per ingannare il tempo, anche lei non conosce nessuno. Ci teniamo sul vago. Cazzate pre esame, mentre i corridoi del Dipartimento di Studi Storici avvampano lenti e silenziosi nell’aria stantia del pomeriggio.
Per quel che mi riguarda, cerco di essere leggero, lottando per non sprofondare il quel mellifluo stato di panico, lo “stadio bianco” lo chiamo, in cui sei preso dalla certezza incontrovertibile di avere dimenticato tutto quello che hai studiato.
Lei pure è piuttosto loquace, ride spesso e sembra non ricordare minimamente a quale conflitto mondiale si riferisca il “lend-lease act” e ad un certo punto, da certi mezzi discorsi che si lascia sfuggire, pare quasi convinta che il Giappone fosse alleato degli Stati Uniti nella guerra ’39 – ’45.
D’accordo, è un attimo confusa.
E intanto considero l’idea delle sue dita affusolate, miracolosamente libere da anelli e patacche.
E rifletto, pensando che non sarebbe affatto male se solo avesse una piccola crisi isterica, e allora magari riuscirei a sfiorarla o a stringerla in un abbraccio affettuoso, certo, senza malizia.
Forse accarezzarle il viso.
Magari sto correndo troppo.
Ed è a questo punto che le cose prendono la più classica delle brutte pieghe, perché lei, sbuffando per il caldo si alza in piedi e decide di togliersi la giacca ed io pudicamente distolgo lo sguardo per un attimo, come se non volessi profanare quel gesto evocatore di intimità ben più riposte, ma quando le riporto gli occhi addosso è come se un guanto d’alluminio arrivasse a rigirarmi le budella, perché lei è in piedi, a pochi passi da me, stagliata nella luce radiosa delle tre, tre e mezza, che mi sorride svagata, come se fosse la cosa più naturale del mondo, restarsene in piedi in mezzo al corridoio, non solo e non tanto senza giacca e sorprendentemente nuda, quanto piuttosto senza le braccia, tranciate di netto appena sotto la spalla, i monconi cauterizzati ad arte, mentre con la coda dell’occhio noto che le maniche della giacca abbandonata sullo schienale di una sedia sono farcite da protesi evidentemente ipertecnologiche, dato che le dita delle mani ancora si piegano e si distendono con un fruscio sordo e leggero di invisibili servomotori elettrici.
Ed io non posso fare altro che gridare tutta la mia sorpresa ed il mio orrore di fronte a quella Venere di Milo verniciata d’ambra, che non la smette di fissarmi con occhi ebeti ed è in quel momento che di solito qualcuno mi tira per un gomito, mi sveglia e mi domanda se è tutto a posto.
Magari lo fosse.
Magari, davvero.

CUSTOM CAR CRASH (Calla 1996)
Mi ero alzato dal divano. Mi ero affacciato alla finestra.
Quasi consapevole di stare dentro a un sogno.
L’aria bruciava in vampe di calore immobile. Mi pareva fosse quasi mezzogiorno.
Una profonda inspirazione, mentre piegavo le ginocchia per caricare il balzo.
L’idea dell’abbandono.
La lasciavo prevalere sul senso della lotta.
Intanto, loro lavoravano instancabili.
Rimpianti e Atti Mancati.
Scavavano il giardino secco. Piccoli cumuli di terriccio sabbioso, tra l’erba corta e gialla, per aprirsi da sotto la strada verso la mia stanza e ridurmi a un bozzolo di sangue, bava e ferite, un ammasso pietoso di frattaglie autoironiche, un hamburger ributtante e solo vagamente umano.
Così, ho chiuso gli occhi e sono saltato.
Soffiando fuori l’aria tutta d’un botto.
Ovviamente, prima ero salito sul davanzale.
Occhi chiusi e un gran salto.
Il piano di fuga perfetto.
Il genocidio delle idee chiare e distinte.
E magari avrei dovuto rinfrescare il mio francese.
Avrei dovuto scaricare l’utopia. Deflettere gli sguardi. Perché credevo che potesse funzionare.
Avrei dovuto cambiare taglio di capelli. Magari tentare di operarla a cuore aperto. Incubare un germe d’eresia.
Avrei dovuto fare più moto. Mangiare meno carne. Essere meno analitico. Avrei dovuto rasarmi il pube.
Avrei dovuto rimanere puro sguardo.
Disancorato. Disincarnato. Libero.
Separare ragione e sentimento. E poi comperarmi un cane.
Avrei dovuto lasciarla scivolare e poi fluttuarle accanto, sereno nel declino.
Schiantarmi le ginocchia. Sparare al presidente. Abbandonare il cane.
Bruciare le mie case astrali moribonde.
Comunque alla deriva, ma non perso. Leggi il seguito di questo post »

(Scritto per la serata finale di CartaCarbone festival 2019)

C’era una luna enorme quella sera.
E quelle due creature che dormivano, in mezzo alla radura. Una accanto all’altra, abbandonate a chissà quali sogni.
Ne avevo sentito narrare dai vecchi, nelle storie che si raccontano al crepuscolo, per far paura ai piccoli e insegnar loro che il mondo è un luogo da attraversare con passo guardingo.
Non mi sono mai reputato coraggioso, ma con quella magnifica luna, la brezza e il canto quieto dei grilli, anche se mi era stato sempre detto di temerle e fuggirle, non avevo potuto fare a meno di avvicinarmi per vedere da vicino quelle chimere leggendarie,
Giunto che fui a contemplarne il sonno a meno di un palmo, una delle due, il maschio forse, aprì gli occhi e incrociò il mio sguardo. L’odore acre della sua aggressività mi riempì le narici e prima che potessi scappare ci ritrovammo a lottare avvinghiati.
Fu allora che l’essere mi morse.
Riuscii a divincolarmi e a dileguarmi nel bosco, terrorizzato dall’idea che quel demone potesse braccarmi tra i cespugli.
Zoppicai per qualche giorno e mi chiesi se quel che dicevano i miti riguardo al morso di quelle creature fosse vero, però la ferita si rimarginò talmente in fretta da ricacciare i dubbi da dove erano venuti.
Un mese dopo, sempre nel bosco, nei pressi di un piccolo stagno, scoprii che non si trattava di leggende.
Arrivò come un’onda, portata della luna enorme che dominava il cielo. Mi rotolai a terra ringhiando, mentre spasmo dopo spasmo sentivo le membra che mutavano forme e dimensioni.
Poi strisciai fino allo stagno e al chiarore della luna che Illuminava a giorno il bosco, riuscii a specchiarmi. La mia nuova forma era la stessa del mostro che mi aveva morso. E non era fatta per muoversi radente al terreno.
Barcollando, mi sollevai sulle zampe posteriori. La coda era scomparsa. La mia nuova pelle era quasi del tutto priva di pelo, pallida come la luna. Le zampe anteriori erano corte e munite di dita mobili come rami d’albero. Gli occhi, il naso e le orecchie piccolissimi, incapaci di scandagliare il bosco che ora mi appariva inospitale e freddo.
Tentai di ululare, ma quel che uscì fu solo un verso sgraziato e rauco.
Così iniziai a correre verso il fondovalle. Verso quelle luci misteriose che ogni tanto avevo visto da lontano e dalle quali fin da cuccioli gli anziani del branco ci avevano insegnato a stare lontani.
Non mi apparivano più misteriose, né ostili.
Mi guidavano verso un luogo che forse avrei imparato a chiamare “casa”.

Margherita si alzò e arrancò al buio fino alla porta del frigo.
In un angolo, il coniglio gigante la fissava.
Ritto sulle zampe posteriori, doveva essere alto almeno un metro e ottanta, dato che le punte delle lunghe orecchie lambivano il soffitto.
Margherita strizzò gli occhi. Li chiuse e poi li riaprì.
Il coniglio non sparì. Non era un’allucinazione.
Sgranocchiava un wurstel dopo averlo inzuppato nel barattolo della senape che teneva tra le zampe anteriori.
Tutta roba che arriva dal mio frigo, pensò Margherita, con una punta di irritazione.
«Credevo che i conigli fossero erbivori» sbottò. Era una frase stupida da dirsi in una situazione come quella. Se ne rese conto nel momento stesso in cui la pronunciava.
«Una delle tante bugie sul nostro conto» disse il coniglio, che finì di masticare il wurstel e posò il barattolo della senape sulla credenza.
«Non ho trovato birra in frigo» disse, un po’ piccato.
«Non mi piace» rispose lei. Una vocina, in un angolo del suo cervello, continuava a ripetere: «Tra un attimo ti svegli, è solo un sogno.»
Il coniglio scosse la testa e le orecchie ondeggiarono un po’ comicamente, quasi fossero posticce.
«Non c’è un modo facile per dirlo» sospirò.
«Cosa?»
«Che è ora di andare.»
«Dove?»
«Valhalla. Grandi Praterie. Campi Elisi. Aldilà. Devo continuare?»
«Io? Cioè, adesso?»
Il coniglio uscì dall’angolo «Un aneurisma cerebrale, tra circa due minuti e mezzo. Dovresti già sentire una leggera ma insistente pulsazione alla tempia destra. Non è forse quella che ti ha svegliato?»
In effetti da quando si era svegliata avvertiva un vago mal di testa.
«Sei un angelo?» chiese.
«No.»
«Un diavolo?»
«No. Sono uno psicopompo.»
«Psico…?»
«…pompo. È greco. Significa “colui che accompagna le anime”.»
«Sei la Morte?» Leggi il seguito di questo post »

 

 

Nel sogno Sonia dormiva rannicchiata contro la mia schiena.
Io invece ero sveglio e mi giravo verso di lei, con un movimento lento e un po’ goffo. Respirava piano, le braccia raccolte al petto, serenamente abbandonata ai suoi mondi onirici variopinti.
Le guardavo. Aveva i capelli più lunghi di quando se n’era andata. E la sua pelle aveva un profumo nuovo.
Era stata la prima cosa che avevo notato quando ci eravamo abbracciati nell’antibagno di un locale in cui non mettevo piede da almeno quindici anni.
Perché fossi lì non era chiaro, come spesso accade nei sogni. Avevo camminato per tutta la sera. Mi ci ero trovato davanti, ero entrato e avevo imboccato subito la via delle toilettes.
Lei stava uscendo dal bagno delle signore. Vestiva un abitino bianco, corto. Nessun gioiello a rendere banale una bellezza pura proprio perché imperfetta.
Poi c’erano le traiettorie degli sguardi guidate a toccarsi da forze cosmiche contro cui poco valeva lottare. Le stesse forze che una frazione di istante dopo ci spingevano l’ una verso l’altro.
La si sarebbe potuta definire una scena da film se l’espressione non fosse suonata scontata.
E nulla da dire. Nemmeno un grammo di fiato da sprecare.
Così senza dirci una parola, solo continuando a baciarci, stringerci e guardarci finivamo prima sulla sua auto e poi in quella che intuivo essere la casa dove viveva.

Il tizio continua a parlare.
Da almeno cinque minuti. Chiude ogni frase con un «Capisce, professore?» che dopo la terza volta suona stucchevole, perché è chiaro che il fatto che io capisca o meno, per lui è del tutto irrilevante.
Poi porta la tazzina alle labbra e sorbisce il caffè lungo che ha ordinato quando è entrato, prima di accorgersi di me, e che deve essersi ormai ridotto a una brodaglia tiepida e zuccherata.
Me ne stavo tranquillamente seduto all’unico tavolino d’angolo libero e sorseggiavo un succo di pompelmo, quando sulla soglia era comparso il tizio: sui cinquant’anni, faccia larga, capelli brizzolati un po’ troppo lunghi dietro, di sicuro per compensare la stempiatura già ben pronunciata e l’aspetto, che nonostante gli abiti firmati, restava quello di un campagnolo ripulito.
Prima di notarmi aveva ordinato al barista un lungo in tazza grande, poi mi si era parato davanti salutandomi con un sonoro «Professore carissimo, posso sedermi con lei?»
Senza nemmeno aspettare la mia risposta, si era accomodato sbottonandosi il cappotto color cammello e dopo aver posato sui tavolino uno smartphone delle dimensioni di un tagliere da polenta, aveva attaccato a parlare.
Un discorso lungo e involuto, pieno di ripetizioni, anacoluti e salti logici sui problemi scolastici del figlio.
Aveva bevuto il caffè e fatto una pausa.
A questo punto ci sono io, che lo guardo, senza battere ciglio. Da quando si è seduto non ho fiatato, limitandomi a centellinare il succo di pompelmo, pensare al sogno della notte precedente e sbirciare i titoli del giornale posato sul tavolo vicino.
Lui scava il fondo della tazzina alla ricerca di zucchero. Poi riprende a parlare.
E insomma, professore, dice. Con le mogli la guerra è persa in partenza. S’è fissata che il figlio deve avere il diploma di liceo. Poi lui non se ne farà nulla. Che mica gli passa per l’anticamera del cervello di andare all’università. Me lo tiro in azienda da me, a lavorare, ovvio. Però, capisce professore, che almeno lui al diploma ci arrivi, alla fine ci tengo anche io che il diploma non ce l’ho. Insomma, io lo so che studia poco. Che la media è quella che è. So anche che non è uno stinco di santo in classe, però ecco, se perde anche quest’anno sarebbe un disastro, capisce professore?
Fa un’altra pausa.
Suppongo si aspetti un mio «E quindi?» e non lo deludo. Leggi il seguito di questo post »

Il racconto che segue è stato pubblicato originariamente sul n. 10 di “Digressioni”
(Per informazioni sulla rivista, dove trovarla, come acquistarla e come abbonarsi: http://digressioni.com/)

Alla fine Ismaele l’aveva presa.
I vecchi del villaggio, all’epoca poco più che mocciosi, la ricordano ancora quella mattina. È un ricordo sbiadito, che si perde spesso tra bave e biascicamenti, ma che non cessa di riaffiorare dalle acque della memoria, torbide come quelle della baia dopo le tempeste invernali.
Qualcuno ricordava le discussioni feroci su quel che andava fatto, perché magari era stato spedito dalla propria madre a recuperare il padre o un fratello alla Tana della Murena, prima che la cena si raffreddasse troppo.
Perché all’imbrunire, tirate in secco le barche e sistemati gli attrezzi da pesca, era alla Tana della Murena che gli uomini del villaggio si incontravano. Ogni santo giorno, domenica esclusa. Per mettere in corpo dell’alcol e scambiarsi resoconti sulla giornata di duro lavoro alle nasse e alle reti; e poi per contrattare con i mercanti di pesce, tirando sul prezzo tra imprecazioni, a volte decisamente oscene, e ruvide strette di mano inumidite da sputi rituali a suggellare gli accordi raggiunti.
Quella primavera però tra i tavolacci e il bancone di legno di quercia non si disputava furiosamente sul prezzo delle ombrine o dei calamari. Ogni abboccamento, ogni discorso, ogni parola che usciva da quelle bocche spesso sdentate e male in arnese, tra un sorso di acquavite e una tirata di pipa, riguardava lei.
Pochi dichiaravano di non voler credere a superstizioni antiche e molti invece osservavano come i banchi di sardine avessero già iniziato a diradarsi da quando, alcune settimane prima, era stata avvistata nella baia. Avrebbe messo in fuga tutto il pesce, condannandoli a mesi o addirittura anni di stenti e patimenti. Era già accaduto in passato, i racconti degli anziani parlavano chiaro, non c’era motivo di dubitarne. C’era chi giurava di averla udita cantare, tra le scogliere a nord della baia, dove si diceva avesse stabilito la sua dimora. Flask il carpentiere invece negava con decisione che potesse cantare. Poteva però lacerare le reti con un morso più poderoso di quello di uno squalo. E frantumare il fasciame delle barche con i colpi della sua muscolosa coda argentata.
Un mercante di aringhe ricordava di aver udito che quasi un secolo prima gli abitanti di un villaggio vicino avevano provato a allontanarne una facendo benedire le acque prospicienti, poiché secondo l’opinione di alcuni saggi teologi e celebri filosofi naturali, quel tipo di creature aveva sicuramente origini diaboliche.
Le discussioni proseguirono animate e inconcludenti per settimane. E quando giornate di pesca sempre più magra iniziarono ad infilarsi una dietro l’altra, come perle sul filo di una collana, i conciliaboli alla Tana della Murena divennero alquanto isterici.
Fino a che una delle prime sere di maggio sulla soglia del locale apparve il vecchio Ismaele.
Si raccontava che avesse fatto tre volte il giro del mondo su altrettante baleniere e vascelli mercantili, visitando luoghi remoti e inaccessibili. Da popoli che allora nessuno avrebbe trovato disdicevole definire “barbari” o “selvaggi”, presso i quali pare avesse vissuto, prendendo una o addirittura due mogli, aveva appreso quei segreti del mare che nemmeno la più prestigiosa università del cosiddetto mondo civilizzato avrebbe mai potuto insegnargli. Con i denari degli ingaggi aveva poi acquistato una grande casa con sette abbaini a picco sulla scogliera appena fuori dal villaggio dove viveva da solo.
«So come liberarvi della creatura» disse, «E lo farò, la notte del solstizio d’estate. In cambio però dovrete vendermi tutto il pesce che pescherete per i prossimi dieci anni. Prendere o lasciare.»
«Ma il prezzo?» qualcuno ebbe l’ardire di obiettare.
«Il prezzo? Sarà ragionevole.» rispose. Ci fu a chi parve che un’impercettibile smorfia gli avesse percorso il viso mentre lo diceva, ma nessuno fu in grado di giurarlo.
Così ogni discussione si chiuse e il villaggio affidò quello che riteneva essere il suo destino a Ismaele.
Di quel che successe nel mese successivo poco si sa.
È certo che egli si sia fatto fabbricare dagli artigiani del villaggio una grande rete a strascico, con una complicata trama a doppie maglie esagonali concentriche, di cui egli stesso aveva fornito disegno e misure. Poi si sa che fece arrivare da fuori dei muratori e dei manovali, gente dalla pelle scura e la parlata strascicata, per quel poco che li si poté udire, i quali lavorarono alacremente per tre settimane nel grande scantinato della sua casa a picco sulla scogliera.
Ci furono voci che lo volevano aggirarsi tra le lapidi del camposanto armato di pala e piccone, nelle notti senza stelle. Ma che si trattasse di pure dicerie è confermato dal fatto che non si registrarono episodi di profanazione in quel periodo. Così come è confermato che verso la metà di giugno, una settimana prima del solstizio, al calar della sera egli fece stendere la rete sul molo e la asperse con un liquido ambrato, di cui nessuno avrebbe mai saputo dire la provenienza e la natura, intingendo un ramoscello di betulla in un bugliolo arrugginito e tracciando nell’aria strani segni con le mani, che ai più parvero scongiuri pagani.
Invece non vi è affatto unanimità su come e quando Ismaele scese in acqua, il giorno del solstizio. Per alcuni, ammarò la lancia già alle tre del pomeriggio, portando con sé oltre alla rete, un violino, delle esche vive e due pistole a avancarica col manico di madreperla, mentre la vecchia vedova di Peleg, che all’epoca aveva non più di cinque o sei anni, ricordava di averlo visto mollare gli ormeggi soltanto al crepuscolo, con a bordo la rete, una lanterna e nient’altro e di averlo visto remare verso le scogliere dove era creduta dimorare la creatura. Era completamente nudo, la pelle bianca e grinzosa del petto e della schiena solcata da strani arabeschi di nerofumo, che parevano le lettere di qualche antico alfabeto.
Era vestito però quando rientrò in porto, all’alba del giorno dopo, su questo c’è accordo pieno, e aveva issato a bordo parte della rete con il suo contenuto. Quando si accostò al molo, grande era la curiosità nella piccola folla che lo aveva atteso fin dalla notte fonda. Nel viluppo formidabile di corde, alghe e vegetazione marina che riempiva la rete, coperto in parte da una tela cerata umida, ci fu chi credette di scorgere il battito tenue di una coda scagliosa e argentata; alcuni colsero flessuose membra femminili, che per qualcun altro invece erano strane pinne prensili, e quello che trent’anni dopo sarebbe diventato un pluridecorato eroe di guerra, è stato convinto fino al giorno della sua morte di aver visto occhieggiare per un attimo tra le maglie della rete due seni armoniosi e diafani, tempestati di gocce d’argento e piccole gemme simili a diamanti.
«La creatura ora è mia» disse Ismaele, mentre con l’aiuto di un paranco issava la rete e il suo contenuto sul molo e poi la depositava sul cassone di un carro trainato da due muli, che aveva condotto lì il giorno prima.
«Nuoterà nell’acquario che ho fatto preparare nel sotterraneo di casa e mi allieterà con il suo canto.» spiegò.
La folla mormorò di stupore e meraviglia. Dunque Flask aveva torto.
«E forse con altro…» aggiunse con un ghigno che a molti parve lascivo.
«Quanto a voi» minacciò mentre saliva a cassetta e impugnava le redini «farete bene a rispettare i patti, se non volete che la ributti nella baia!».
Di ciò che accadde dopo le cronache dicono abbastanza, ma non tutto.
Si sa che i prezzi pagati da Ismaele ai pescatori erano terribilmente bassi e niente affatto ragionevoli, come invece aveva promesso. E si sa che, nonostante la creatura fosse stata catturata, il pesce non tornò abbondante. Anzi, scarseggiò sempre di più. Anni dopo, alcuni uomini di scienza attribuirono la causa a uno sconvolgimento tellurico avvenuto nel profondo, il quale aveva aperto delle fenditure sul fondo marino, da cui si riversava un gas che avvelenava le acque profonde della baia impedendo al pesce di nutrirsi e riprodursi.
Strette tra i prezzi da fame e la penuria di prede, una dopo l’altra le famiglie di pescatori cessarono l’attività ben prima della scadenza dell’accordo con Ismaele. Pochi provarono a diventare agricoltori o artigiani. Molti emigrarono verso coste più pescose.
Quanto a Ismaele, dopo che l’ultima barca da pesca fu tirata in secco, smise di farsi vedere al villaggio.
Qualcuno diceva passasse il tempo nello scantinato trasformato in acquario, inebriato dal canto ammaliante della creatura. Altre voci davano per certo che egli avesse giaciuto ripetutamente con essa, ricavandone una strana forma di catalessia intermittente, e secondo alcuni della prole: due piccoli abomini dalla pelle traslucida e le dita palmate che si diceva nei giorni di pioggia si aggirassero nel giardino della casa, ormai ridotto a una foresta intricata, ma che nessuno in realtà vide mai.
Ciò su cui non v’è dubbio è che, lentamente ma inesorabilmente, la casa dai sette abbaini rovinò. Assediata dalla vegetazione e aggredita dalle intemperie, collassò su sé stessa come un castello di carte, assieme alle memorie di Ismaele, della creatura e dei timori inconsulti di quella lontana primavera.
Anni dopo i ruderi presero fuoco, colti dalla saetta di un temporale scoppiato d’estate e mio nonno, che all’epoca aveva diciotto anni e faceva il volontario nel corpo dei pompieri del villaggio, fu tra i primi a addentrarsi tra le macerie fumanti.
Tutto quello che trovarono nello scantinato, l’unico locale a essersi salvato dalle fiamme, furono i resti sbrecciati di una grande piscina asciutta da decenni.
Dentro, lo scheletro un uomo e quel che restava dello scheletro di una donna.
L’uomo era come avvolto in un bozzolo tra le maglie slabbrate di una grande rete a strascico.
Dello scheletro della donna non c’era che la parte superiore del corpo, perfettamente intatta.
Mio nonno ricordava le ossa candide come avorio.
Sparse sul pavimento, tutt’intorno alla cassa toracica, scaglie simili a gocce d’argento.
E piccole gemme dalle facce esagonali, lucide come specchi, che sembravano diamanti.

Il racconto che segue è stato pubblicato originariamente, in versione ridotta, sul n.6 di “Digressioni”
(Per informazioni sulla rivista, dove trovarla, come acquistarla e come abbonarsi: http://digressioni.com/)

 

Oh, sunshine, your
love and beauty passed me by,
should I waste my time
in your valley, beneath your sky?
(Kyuss – Whitewater)

Nova.
Che vola attraverso il parabrezza, come un manichino da crash test.
Non aveva la cintura allacciata. E l’airbag sul lato del passeggero aveva deciso per qualche motivo di non attivarsi.
Fino a un attimo prima, giocherellava con la pistola in grembo. Vibrava appena. Un tremito leggero e controllato, sotto la patina di ghiaccio australe che le avvolgeva il profilo magro e affilato.
La coda dell’occhio mi era scivolata ancora sul filare di pali della linea elettrica che correva parallela alla strada.
Poi, come un lampo surreale: sotto un cielo rosso eccoci di nuovo mano nella mano su una spiaggia deserta, Lefkada, Santorini, o forse un satellite di Pentesilea, sistema stellare Canis Maior, un’estate di almeno quindici anni fa, e lei che recita a memoria qualcosa di molto scontato e molto bello, come Rimbaud o forse Verlaine, e io che tento invano di non baciarla.
Quindi, un fermo-fotogramma sul corpo di Felix, nel bagagliaio. La testa riversa all’indietro. La lingua bluastra a fior di labbra.
Ho accelerato e con una sterzata brusca ho puntato il muso verso la base del primo palo che mi sono trovato davanti.
Ora c’è il cofano che si solleva come un foglio di carta strappato da un quaderno.
La griglia del muso che implode.
Il palo che si schianta verso il deserto e i cavi della corrente, che teneva sospesi a quasi dieci metri d’altezza, danzano per un attimo come crotali impazziti sul tetto dell’auto, prima di frustare la polvere giallastra sul terreno e restare immobili.
Materia che obbedisce docile alle leggi della fisica.

Nova.
Che controllava ossessivamente il display del tablet.
Il riverbero del sole di mezzogiorno tremolava dietro le vetrate impolverate. Odore di uova fritte e pancetta.
Il caffè che la cameriera ci aveva versato per la seconda volta nelle tazze faceva se possibile ancora più schifo della prima.
Nova lo aveva mandato giù comunque e si era guardata intorno per l’ennesima volta, senza toccare il cibo che aveva nel piatto.
Aveva fretta di finire.
Niente residui. Niente tracce incongrue.
Io e quel che restava di Felix nel bagagliaio della macchina, eravamo scarti di lavorazione di cui disfarsi in fretta.
Le uova che ci erano state servite avevano la consistenza e il sapore del cartone umido.
Le avevo trangugiate a fatica.
Era come cercare di ingoiare la poltiglia della vita che fino a sei ore prima avevo creduto di avere.

Nova.
Che mi sorride e mi sfiora il viso con le dita mentre i ragazzi del comitato neo trotzkista studentesco preparano molotov versando benzina in bottiglie vuote di rum da quattro soldi.
Inizio di semestre di un trilione di anni fa: marcia di protesta contro le operazioni militari dell’Alleanza Atlantica in Bielorussia.
L’ennesima piccola guerra europea destinata a sancire la fine del blocco occidentale.
Alla radio del campus, un servizio sulla più grande adunata nazista di tempi del Furher. Ventimila nuove bestie bionde sotto le insegne del movimento Blut und Reich davanti alla porta di Brandeburgo: un lungo, frammentato delirio volkisch, scandito da citazioni musicali wagneriane, più o meno benevolmente tollerato dal governo di coalizione socialdemocristiano in carica, nel nome della libertà di espressione e manifestazione del pensiero. Lo stesso governo che dopo due settimane dichiarerà l’uscita unilaterale della Germania dalla NATO.
Quando ero tornato cosciente, la stanza era immersa nell’oscurità fangosa delle cinque del mattino.

Nova.
Che raccontava. Nulla più che una voce ferma e distaccata. Senza inflessioni emotive. In penombra.
«Uno degli studenti di Felix apparteneva a una cellula dormiente delle Milizie dell’Egira. Stavano cercando di farsi un’arma nucleare da usare in Pakistan, contro la giunta militare al governo. Gli serviva un fisico specializzato in alte energie, proprio come Felix.
Intendevano reclutarlo dopo averlo reso più sensibile alla causa, mappandogli il substrato neurale, riconfigurandogli gli schemi elettrochimici fondamentali e manipolandogli selettivamente la memoria. Sei settimane in una vasca di deprivazione sensoriale modificata per il trattamento di mnemo-rigenerazione e il gioco è fatto.
Come è stato fatto con te.
Un’operazione clandestina da manuale.
Una talpa convinta ad agire non per denaro o per ideologia ma per motivi personali.
Ti abbiamo riprogrammato e infiltrato, per friggere il cervello di Felix sabotando la procedura e farci poi arrivare agli altri membri della cellula.
Tutta roba che né il Congresso, né il Presidente si potevano permettere di approvare o autorizzare.
Applicazione di trattamenti vietati. Lesioni permanenti. Varie violazioni dei diritti umani fondamentali. Tecnicamente, anche un rapimento e soprattutto un brillante fisico del CalTech intrappolato in una sindrome autistica irreversibile.»
Riuscivo a malapena a intuirne il volto. E la pistola puntata verso di me
Le parole le cadevano fuori dalla bocca.
Come brandelli di carne cruda.

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Il racconto che segue è stato pubblicato originariamente sul n.7 di “Digressioni”
(Per informazioni sulla rivista, dove trovarla, come acquistarla e come abbonarsi: http://digressioni.com/)

Se Dio avesse voluto intervenire
nella degenerazione dell’umanità
non l’avrebbe già fatto?
(Cormac McCarthy – Meridiano di Sangue)

Comparvero sulla cresta erbosa della collina, uno dietro l’altro come personaggi rinnegati dell’Apocalisse di Giovanni.
Quattro cavalieri in blu e grigio, sbalzati dalla luce di mezzogiorno sullo sfondo del cielo terso di fine settembre.
La donna li scorse mentre attingeva l’acqua dal pozzo davanti alla baracca di tronchi che non pochi avrebbero faticato a chiamare casa.
Stavano imboccando la pista che scendeva verso la pianura. A meno che non decidessero di deviare verso il fiume, nell’arco di un paio d’ore se li sarebbe ritrovati di fronte alla soglia.
Capitava spesso in quel periodo dell’anno. Prima che la neve coprisse tutto con un lenzuolo di seta e silenzio, le tribù dell’altipiano si facevano più aggressive. Gruppi di guerrieri scendevano verso valle per saccheggiare le fattorie e i campi minerari, alla ricerca di alcool, munizioni e soprattutto provviste, coperte e abiti pesanti per l’inverno.
L’esercito gli spediva contro i reparti dagli avamposti che presidiavano la Frontiera e così fino a metà novembre le colline intorno all’altipiano brulicavano di convogli e pattuglie.
Trascinando il secchio colmo d’acqua, la donna rientrò in casa. Riempì una pentola di rame ammaccata e la mise sulla stufa a scaldare.
Il bambino aveva ricominciato a piangere. Si avvicinò alla culla. Lo prese in braccio.
Portò uno sgabello malsicuro alla soglia e si sedette.
Guardò verso le colline coperte d’erba e arbusti bassi che presto avrebbero cominciato a perdere le foglie.
I quattro continuavano a scendere in fila con andatura lenta.
La donna si sbottonò la camicia e attaccò il piccolo al seno. Il bambino si acquietò subito.
Presto sarebbe arrivato il tempo di svezzarlo.

Il Sergente aveva un accento strascicato. Lo si sarebbe detto del Sud, nonostante gli occhi chiari e la barba fulva mal curata.
Scese da cavallo e salutò la donna, togliendosi il cappello.
Gli altri sostavano qualche metro più indietro, schierati e ancora in sella, infagottati e impolverati nelle loro uniformi sdrucite, come reduci di tutte le guerre combattute dalla notte dei tempi fino ad allora.
“Avremmo bisogno di abusare della sua cortesia, se fosse possibile.” disse il Sergente.
Seduta sullo sgabello, la donna annuì. Il bambino dormiva profondamente, rannicchiato in grembo.
“Ci farebbe comodo dell’acqua calda, e qualche striscia di tessuto pulito. Il mio caporale ha bisogno di cambiare la medicazione. Ha perso una mano in uno scontro con i pellerossa.”
Il Caporale fece avanzare il cavallo di qualche passo e sollevò l’avambraccio sinistro, esibendo come un trofeo il moncherino avvolto in bende sudice e sanguinolente.
“Troncata di netto appena dopo il polso” disse il Sergente.
“Con un solo colpo di scure.” precisò il Caporale. Una smorfia gli dipingeva sul volto un ghigno morboso.
La donna si alzò e rientrò in casa. Rimise il bambino nella culla. Poi prese dal fornello il bricco del caffè che aveva preparato a metà mattina e quattro tazze di latta dalla cassapanca che oltre a un tavolo di assi, quattro sgabelli e una branda era l’unico arredo della stanza.
“Ho messo dell’acqua a scaldare per la medicazione.” disse uscendo. “E c’è dello stufato per cena. Non è un granché, ma è tutto quello che ho.”
La voce della donna era bassa e rauca.
Il cielo del pomeriggio aveva iniziato a velarsi di nuvole alte e sottili.
“Dio la benedica.” disse il Sergente andandole incontro “Piuttosto di un’altra cena a gallette e fagioli, mi sarei staccato un piede a morsi.” Leggi il seguito di questo post »

Perché è gratificante sentirsi amati?
Perché chi ci ama sembra non fare altro che soddisfare una nostra necessità atavica.
La necessità, urgente, impellente e spasmodica di essere riconosciuti come piccoli caldi centri dell’universo attorno a cui qualcuno ha preso a ruotare, dopo essere entrato nel nostro orizzonte degli eventi, abbandonando la traiettoria indifferente lungo la quale ci passava accanto.
La nostra felicità non nasce che da questa consapevolezza.
Siamo entrati nella tessitura spaziotemporale di qualcun altro. Come stelle collassate, ne abbiamo deformato le linee esistenziali portanti. Come buchi neri ci nutriamo della sua luce. E ne siamo, al tempo stesso, schiavi.
E’ la natura gravitazionale dell’amore. Un cosmo di satelliti che si orbitano attorno vicendevolmente, finché le leggi ben poco newtoniane della gravitazione sentimentale universale non ci mettono lo zampino.
Per quel che mi riguarda, credo di essermi innamorato un paio di volte nella mia vita.
Sono tante? Sono poche? Sono abbastanza per autorizzarmi (ammesso che per esprimere un’idea sull’argomento occorra una qualche patente che autorizzi a pronunciarsi e soprattutto ammesso che qualcuno possa veramente pretendere di dire qualcosa di sensato sull’argomento, me compreso…) ad articolare un’opinione in proposito e di condividerla col resto del mondo? A dire il vero non ne ho la più pallida idea.
Ciò nonostante, quello che credo di aver capito dall’osservazione di me stesso, e del mondo che mi sta intorno, è che abbiamo introiettato in profondità un’idea di amore talmente utopica e radicale, un’idea che sconfina quasi nel mistico, che è praticamente impossibile da attingere nella fattuale quotidianità di tutti i giorni.
Quest’idea è filtrata dall’iperuranio della grande produzione letteraria e filosofica attraverso una certosina e pervasiva opera di diffusione, adattamento e, ça va sans dire, semplificazione, sicché alla fine ci siamo ritrovati impiantato nel profondo dei nostri piccoli e inutili cervelli un modello culturale che è in ultima analisi totalmente disfunzionale alla riproduzione della specie.
L’idea romantica (nel senso filosofico e letterario “alto” che il termine “romantico” ha) con i suoi corollari fatti di assolutezza, complementarietà totale e totale rispecchiamento dell’uno nell’altra (o dell’una nell’altra, o dell’uno nell’altro, per essere a tutti i costi “politically correct”), realizzazione del sé strettamente avvinta alla realizzazione dell’altro, l’idea dei “due corpi e un’anima”, o peggio ancora delle “anime gemelle”, del legame indissolubile che supera spazio, tempo e convenzioni sociali e culturali; ebbene quest’idea mina alla radice la possibilità per ogni relazione concreta che si debba misurare con le opacità della quotidiana fatica di vivere, di rispecchiarsi in tale paradigma splendente nella notte come un cristallo purissimo, e quindi di essere vissuta come appagante e viva fonte di realizzazione e pienezza.
La frustrazione e l’alienazione, siano esse manifeste o latenti, con la loro pletora di crisi, controcrisi, rotture, tradimenti, sotterfugi e tutta la pittoresca congerie di acrobazie psicologiche ed algebriche autogiustificazioni etiche che lo zoo delle umane amenità riesce a sfornare con prolificità degna di un branco di conigli in calore, sono il pane quotidiano di chi si trova a misurarsi con questo modello.
Ma la natura, diceva il “maestro di color che sanno” Aristotele, non fa nulla di inutile. E soprattutto, matrigna ma anche madre, trova sempre il modo di riequilibrare i conti a suo vantaggio.
E allora ecco che alla ricerca spasmodica e bramosa dell’Amore Perfetto, che continua ad orientare il comportamento dell’individuo anche al di là della sua reale consapevolezza e coscienza immediata come in una sorta di riflesso dell’attività incessante della Volontà di Schopenaueriana memoria, subentra la logica del “mal comune mezzo gaudio”, o detto con più icastica e scatologica efficacia dagli amici del Bar Pigafetta di Marano Vicentino, del “meglio una merda in due che una torta da soli” (immaginatelo nello strascicato vernacolo locale), che fa del rispecchiamento nella comune frustrazione e nel comune fallimento e nella condivisa rinuncia ad un futuro ricomposto e radioso sempre anelato ma mai raggiungibile, un potente elemento coesivo spesso tacitamente implicato, anche se mai autenticamente oggettivato, da ambedue le parti, in grado di rafforzare la spinta biologica all’accoppiamento sessuale e in ultima analisi alla riproduzione della specie.
La produzione della prole infatti, nella nostra povera specie di “scimmie nude” (e mai definizione potrebbe essere più calzante, che dette scimmie ballino o meno, con buona pace di Gabbani…) richiede un investimento energetico che va ben al di là dei due o tre colpi di reni in sincrono, necessari ad un coito magari modesto ma efficace, che permetta un produttivo incontro fusionale di gameti.
Richiede una solidarietà di coppia che, anche se si basa in ultima analisi su una rinuncia rassegnata e bilaterale al Grande Uno Rosa a cui siamo addestrati ad aspirare dall’ “Ordine del discorso Amoroso” dominate, dovrebbe permettere in qualche modo alla coppia stessa di durare per il tempo sufficiente all’allevamento dei cuccioli, almeno fino a quando non siano in grado di procacciarsi cibo e risorse da soli.
Ma, tant’è.
La biologia non si interessa a etica, estetica o metafisica. A ciò che è Giusto. A ciò che è Buono. A ciò che e Bello. A ciò che è Razionale. A ciò che è Necessario
E alla fine prende comunque quel che le spetta.
Ed ecco che allora, senza aver sviluppato questa sorta di forma mentis basata su quello che è un dualismo autenticamente schizofrenico e su una sua ricomposizione dialettica, per altro instabile ed esposta alle temperie della nostra continua brama di Assoluto; senza aver introiettato al fianco dell’idea platonica e iperurania di Amore Totale questa declinazione a denti stretti del Principio di Realtà assolutamente antitetica all’altra idea; senza una concessione alla brutale evidenza dei nostri impulsi biologici primari, che ci consente di affermare che la vita concreta, quotidiana e reale non è che ripiego, più o meno momentaneo, su quel che passa il convento; ebbene senza tutto questo difficilmente potremmo trovare l’impulso a prolificare.
E a fare in modo che il sotto il sole sempre nuove sciagure umane risplendano ancora e poi ancora.

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