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Le facce diventano itteriche quando la luce dei lampioni agli incroci passa attraverso l’abitacolo.
Sul sedile di dietro, io mi massaggio le tempie.
Il Tozzo libera un rutto sonoro e potente.
E Bongo, davanti, tira una mezza bestemmia, che suona incerta tra lo stupore e l’ammirazione.
Dovevamo proprio darci un taglio.
Doppio giro di spritz col Campari in apertura. Praticamente una bottiglia di vino a testa durante la cena. Poi due birre per ciascuno dal Sòtto. Un paio di giri di vodka tonic al Sunset.
È a questo punto che il Nero borbotta: “Siamo solo un branco di animali del cazzo”
Lo mastica con un tono disilluso e astioso, da personaggio di film americano, mentre guida sulla tangenziale nelle primissime ore di quello che si annuncia come un sabato tardo primaverile umido e torbido.
Poi ricomincia a raccontare quanto fosse stata zoccola Beatrice.
Questo pianto greco compunto e composto. È il basso continuo della serata.
È che lui non poteva saperlo, ma io una vaga idea ce l’avevo già.
Anzi, era un’idea piuttosto precisa.
Un’estate di tre anni prima o forse quattro, vicino allo stagno, anche se molti si ostinano a chiamarlo laghetto, dietro la statale. Con la bella stagione piazzano qualche tavolino, un paio di panchine e ci aprono un chiosco di bibite e gelati.
Non fosse per i moscerini, potrebbe essere un posticino piacevole.
All’epoca lei girava con un tizio che andava e veniva. Un agente di commercio, o un rappresentante. Nessuno l’ha mai saputo con precisione. Lui sarebbe arrivato solo dopo. Tutto quello che riesco a ricordare è il gracidio greve e ininterrotto delle rane, le sue tette sode e piccole, fredde come il marmo e l’innaturale brillantezza verde dei suoi occhi nella penombra mentre mi baciava.
Ma questa è tutta un’altra storia

Quella di oggi dice che siamo di nuovo qui.
Bongo, Il Tozzo, io. Stivati nella macchina del Nero, le cinture di sicurezza slacciate e gli sguardi persi oltre i cristalli dei finestrini, mentre profili geometrici dell’ennesima zona industriale addormentata sfilano via veloci.
E dietro, sulla coupè metallizzata, Vultus e Mezzobusto storditi dalla musica, che hanno alzato a palla per impedire a Lollipop, tutto ciancicato sul sedile posteriore davvero minimale, di ammorbarli con l’ennesima versione della storia del suo ennesimo licenziamento.
Le facce ridiventano itteriche, mentre ci lasciamo a sinistra una pianura di cemento illuminata a giorno: il parcheggio oceanico di un parco commerciale.
Magari un po’ imbolsite. Meno affilate. Meno brufolose. In alcuni casi innaturalmente abbronzate, estate o inverno, e magari odorose di acqua di colonia e creme emollienti, le facce sono le stesse di sempre. Le stesse di quando, dieci anni prima ogni santo venerdì ed ogni santissimo sabato vagolavamo di bettola in bettola, di pub in pub, di discoteca in discoteca, prosciugando le paghette e i primi sudati guadagni di sabati pomeriggio passati a volantinare, a sistemare giardini e a sparare etichette dei prezzi tra gli scaffali del minimarket sotto casa.
Ai tempi, l’uniforme d’ordinanza erano jeans, anfibi o scarpe da ginnastica, t-shirts e camicie troppo larghe. I capelli, quando non completamente rasati, sterminati in angoli innaturali a colpi di gel o scolpiti in ciuffi e ciocche, multicolori per i più audaci.
Adesso magari si potrebbe pensare che ci siamo un filo imborghesiti.
Qualcuno ha le scarpe con la fibbia e d’inverno il cappotto color cammello. Qualcuno azzarda qualche giacca. Sportiva, per carità, ma pur sempre giacca.
Qualcun altro di capelli in testa ne ha decisamente meno, e certi girovita cominciano ad apparire appesantiti.
Anziché su utilitarie di seconda mano, viaggiamo per lo più su berline di classe media giapponesi o coreane. Su certi sedili posteriori ci trovi i seggiolini porta bimbi.
E qualche volta, al momento di pagare il giro di aperitivi o il pieno di benzina, qualcuno sfodera dal portafoglio una carta di credito, magari aziendale, color oro o platino.
Eppure l’illusione che nulla sia cambiato dai tempi in cui ci si ritrovava in piazza, sulle nove, nove e mezza per poi scendere rombando verso le discoteche del litorale, le sagre perse per campagne buie e infestate di zanzare, le feste semiclandestine in capannoni in disarmo e i viali periferici di certi memorabili puttan tour metropolitani, continua a friggerci le budella.
Per cui, quando Vultus, tirando il motore allo spasimo smette di starci a ruota e, prima di sorpassare, ci affianca attaccandosi al clacson, mentre Mezzobusto e Lollipop incollano le facce al finestrino rifilandoci una serie di smorfie voluttuose, la nostra reazione è sempre la medesima, istantanea e sincronica.
Pavloviana e stereotipa.
Dito medio alzato e labiale inequivocabile che invita i tre a recarsi in pellegrinaggio presso gli apparati genitali delle rispettive madri.
Siamo ancora la stessa famiglia felice. Leggi il seguito di questo post »

Kill me Sarah,
kill me again with love
it’s gonna be a glorious day
( Radiohead)

In quel periodo scambiavo sempre più spesso giovani turisti giapponesi per giovani turiste giapponesi.
Strano a dirsi, non accadeva mai il contrario.
Dormivo un pugno di ore per notte, svegliato a più riprese da cinguettii spettrali di uccelli annidati chissà dove.
La temperatura si alzava e le mani riprendevano a chiazzarsi di rosso.
Macchie tra gli interstizi, sulle falangi e sui bordi dei palmi, che prudevano leggermente.
Il diagramma degli autostati  pulsava lungo traiettorie non localizzate
E nonostante tutto, avevo deciso di uscire comunque, dopo cena.
Così, mentre mi muovevo in stato semi comatoso sotto i portici del corso, era deflagrato per un secondo fuggevole, il pensiero già censurato di chiamarla.
Accendere il cellulare, spento da quasi una settimana. Comporre il suo numero, controllando il ritmo cardiaco con respiri profondi e cadenzati. Attendere il “Pronto” all’altro capo della linea. La sua voce bassa al cellulare. Il tono appena distorto da lievi raffiche di statica, o magari la pronuncia falsata da una caramella che vaga tra le gengive ed il palato, scrocchiando sui denti.
E poi riattaccare.
Perché non sarei stato in grado di sostenere una conversazione telefonica con lei.
Né con nessun altro.
A dire il vero non sarei stato in grado di sostenere assolutamente nulla.
Così mi ero limitato a vagare per il centro. Poi ero entrato in una libreria che faceva orario notturno. Mi ero aggirato tra le sale, le mani sprofondate nelle tasche, lo sguardo che planava svagato sulle copertine dei tascabili e sui pochi clienti che scivolavano silenziosi tra gli scaffali, godendomi più che altro l’aria condizionata e i Radiohead trasmessi a volume sufficientemente alto dall’impianto di diffusione interno.
Quando uscii, non avevo comperato niente.
Avevo solo voglia di una birra.
Scelsi un locale vicino al municipio. Con lei non c’ero mai venuto. Quindi andava bene.
Ma i tavolini fuori erano pieni. Più che altro coppie.
Giovani. Meno giovani.
Risatine. Chiacchiere piacevoli e inutili da serata tranquilla con coda intima imminente coprivano appena l’assordante musica della carne, che pulsava sotto i tessuti leggeri dai colori chiari e le pelli scottate dal sole, irradiando muscoli e nervi come un fluido caldo e luminoso. Leggi il seguito di questo post »

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