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Il racconto che segue è stato pubblicato originariamente sul n. 10 di “Digressioni”
(Per informazioni sulla rivista, dove trovarla, come acquistarla e come abbonarsi: http://digressioni.com/)

Alla fine Ismaele l’aveva presa.
I vecchi del villaggio, all’epoca poco più che mocciosi, la ricordano ancora quella mattina. È un ricordo sbiadito, che si perde spesso tra bave e biascicamenti, ma che non cessa di riaffiorare dalle acque della memoria, torbide come quelle della baia dopo le tempeste invernali.
Qualcuno ricordava le discussioni feroci su quel che andava fatto, perché magari era stato spedito dalla propria madre a recuperare il padre o un fratello alla Tana della Murena, prima che la cena si raffreddasse troppo.
Perché all’imbrunire, tirate in secco le barche e sistemati gli attrezzi da pesca, era alla Tana della Murena che gli uomini del villaggio si incontravano. Ogni santo giorno, domenica esclusa. Per mettere in corpo dell’alcol e scambiarsi resoconti sulla giornata di duro lavoro alle nasse e alle reti; e poi per contrattare con i mercanti di pesce, tirando sul prezzo tra imprecazioni, a volte decisamente oscene, e ruvide strette di mano inumidite da sputi rituali a suggellare gli accordi raggiunti.
Quella primavera però tra i tavolacci e il bancone di legno di quercia non si disputava furiosamente sul prezzo delle ombrine o dei calamari. Ogni abboccamento, ogni discorso, ogni parola che usciva da quelle bocche spesso sdentate e male in arnese, tra un sorso di acquavite e una tirata di pipa, riguardava lei.
Pochi dichiaravano di non voler credere a superstizioni antiche e molti invece osservavano come i banchi di sardine avessero già iniziato a diradarsi da quando, alcune settimane prima, era stata avvistata nella baia. Avrebbe messo in fuga tutto il pesce, condannandoli a mesi o addirittura anni di stenti e patimenti. Era già accaduto in passato, i racconti degli anziani parlavano chiaro, non c’era motivo di dubitarne. C’era chi giurava di averla udita cantare, tra le scogliere a nord della baia, dove si diceva avesse stabilito la sua dimora. Flask il carpentiere invece negava con decisione che potesse cantare. Poteva però lacerare le reti con un morso più poderoso di quello di uno squalo. E frantumare il fasciame delle barche con i colpi della sua muscolosa coda argentata.
Un mercante di aringhe ricordava di aver udito che quasi un secolo prima gli abitanti di un villaggio vicino avevano provato a allontanarne una facendo benedire le acque prospicienti, poiché secondo l’opinione di alcuni saggi teologi e celebri filosofi naturali, quel tipo di creature aveva sicuramente origini diaboliche.
Le discussioni proseguirono animate e inconcludenti per settimane. E quando giornate di pesca sempre più magra iniziarono ad infilarsi una dietro l’altra, come perle sul filo di una collana, i conciliaboli alla Tana della Murena divennero alquanto isterici.
Fino a che una delle prime sere di maggio sulla soglia del locale apparve il vecchio Ismaele.
Si raccontava che avesse fatto tre volte il giro del mondo su altrettante baleniere e vascelli mercantili, visitando luoghi remoti e inaccessibili. Da popoli che allora nessuno avrebbe trovato disdicevole definire “barbari” o “selvaggi”, presso i quali pare avesse vissuto, prendendo una o addirittura due mogli, aveva appreso quei segreti del mare che nemmeno la più prestigiosa università del cosiddetto mondo civilizzato avrebbe mai potuto insegnargli. Con i denari degli ingaggi aveva poi acquistato una grande casa con sette abbaini a picco sulla scogliera appena fuori dal villaggio dove viveva da solo.
«So come liberarvi della creatura» disse, «E lo farò, la notte del solstizio d’estate. In cambio però dovrete vendermi tutto il pesce che pescherete per i prossimi dieci anni. Prendere o lasciare.»
«Ma il prezzo?» qualcuno ebbe l’ardire di obiettare.
«Il prezzo? Sarà ragionevole.» rispose. Ci fu a chi parve che un’impercettibile smorfia gli avesse percorso il viso mentre lo diceva, ma nessuno fu in grado di giurarlo.
Così ogni discussione si chiuse e il villaggio affidò quello che riteneva essere il suo destino a Ismaele.
Di quel che successe nel mese successivo poco si sa.
È certo che egli si sia fatto fabbricare dagli artigiani del villaggio una grande rete a strascico, con una complicata trama a doppie maglie esagonali concentriche, di cui egli stesso aveva fornito disegno e misure. Poi si sa che fece arrivare da fuori dei muratori e dei manovali, gente dalla pelle scura e la parlata strascicata, per quel poco che li si poté udire, i quali lavorarono alacremente per tre settimane nel grande scantinato della sua casa a picco sulla scogliera.
Ci furono voci che lo volevano aggirarsi tra le lapidi del camposanto armato di pala e piccone, nelle notti senza stelle. Ma che si trattasse di pure dicerie è confermato dal fatto che non si registrarono episodi di profanazione in quel periodo. Così come è confermato che verso la metà di giugno, una settimana prima del solstizio, al calar della sera egli fece stendere la rete sul molo e la asperse con un liquido ambrato, di cui nessuno avrebbe mai saputo dire la provenienza e la natura, intingendo un ramoscello di betulla in un bugliolo arrugginito e tracciando nell’aria strani segni con le mani, che ai più parvero scongiuri pagani.
Invece non vi è affatto unanimità su come e quando Ismaele scese in acqua, il giorno del solstizio. Per alcuni, ammarò la lancia già alle tre del pomeriggio, portando con sé oltre alla rete, un violino, delle esche vive e due pistole a avancarica col manico di madreperla, mentre la vecchia vedova di Peleg, che all’epoca aveva non più di cinque o sei anni, ricordava di averlo visto mollare gli ormeggi soltanto al crepuscolo, con a bordo la rete, una lanterna e nient’altro e di averlo visto remare verso le scogliere dove era creduta dimorare la creatura. Era completamente nudo, la pelle bianca e grinzosa del petto e della schiena solcata da strani arabeschi di nerofumo, che parevano le lettere di qualche antico alfabeto.
Era vestito però quando rientrò in porto, all’alba del giorno dopo, su questo c’è accordo pieno, e aveva issato a bordo parte della rete con il suo contenuto. Quando si accostò al molo, grande era la curiosità nella piccola folla che lo aveva atteso fin dalla notte fonda. Nel viluppo formidabile di corde, alghe e vegetazione marina che riempiva la rete, coperto in parte da una tela cerata umida, ci fu chi credette di scorgere il battito tenue di una coda scagliosa e argentata; alcuni colsero flessuose membra femminili, che per qualcun altro invece erano strane pinne prensili, e quello che trent’anni dopo sarebbe diventato un pluridecorato eroe di guerra, è stato convinto fino al giorno della sua morte di aver visto occhieggiare per un attimo tra le maglie della rete due seni armoniosi e diafani, tempestati di gocce d’argento e piccole gemme simili a diamanti.
«La creatura ora è mia» disse Ismaele, mentre con l’aiuto di un paranco issava la rete e il suo contenuto sul molo e poi la depositava sul cassone di un carro trainato da due muli, che aveva condotto lì il giorno prima.
«Nuoterà nell’acquario che ho fatto preparare nel sotterraneo di casa e mi allieterà con il suo canto.» spiegò.
La folla mormorò di stupore e meraviglia. Dunque Flask aveva torto.
«E forse con altro…» aggiunse con un ghigno che a molti parve lascivo.
«Quanto a voi» minacciò mentre saliva a cassetta e impugnava le redini «farete bene a rispettare i patti, se non volete che la ributti nella baia!».
Di ciò che accadde dopo le cronache dicono abbastanza, ma non tutto.
Si sa che i prezzi pagati da Ismaele ai pescatori erano terribilmente bassi e niente affatto ragionevoli, come invece aveva promesso. E si sa che, nonostante la creatura fosse stata catturata, il pesce non tornò abbondante. Anzi, scarseggiò sempre di più. Anni dopo, alcuni uomini di scienza attribuirono la causa a uno sconvolgimento tellurico avvenuto nel profondo, il quale aveva aperto delle fenditure sul fondo marino, da cui si riversava un gas che avvelenava le acque profonde della baia impedendo al pesce di nutrirsi e riprodursi.
Strette tra i prezzi da fame e la penuria di prede, una dopo l’altra le famiglie di pescatori cessarono l’attività ben prima della scadenza dell’accordo con Ismaele. Pochi provarono a diventare agricoltori o artigiani. Molti emigrarono verso coste più pescose.
Quanto a Ismaele, dopo che l’ultima barca da pesca fu tirata in secco, smise di farsi vedere al villaggio.
Qualcuno diceva passasse il tempo nello scantinato trasformato in acquario, inebriato dal canto ammaliante della creatura. Altre voci davano per certo che egli avesse giaciuto ripetutamente con essa, ricavandone una strana forma di catalessia intermittente, e secondo alcuni della prole: due piccoli abomini dalla pelle traslucida e le dita palmate che si diceva nei giorni di pioggia si aggirassero nel giardino della casa, ormai ridotto a una foresta intricata, ma che nessuno in realtà vide mai.
Ciò su cui non v’è dubbio è che, lentamente ma inesorabilmente, la casa dai sette abbaini rovinò. Assediata dalla vegetazione e aggredita dalle intemperie, collassò su sé stessa come un castello di carte, assieme alle memorie di Ismaele, della creatura e dei timori inconsulti di quella lontana primavera.
Anni dopo i ruderi presero fuoco, colti dalla saetta di un temporale scoppiato d’estate e mio nonno, che all’epoca aveva diciotto anni e faceva il volontario nel corpo dei pompieri del villaggio, fu tra i primi a addentrarsi tra le macerie fumanti.
Tutto quello che trovarono nello scantinato, l’unico locale a essersi salvato dalle fiamme, furono i resti sbrecciati di una grande piscina asciutta da decenni.
Dentro, lo scheletro un uomo e quel che restava dello scheletro di una donna.
L’uomo era come avvolto in un bozzolo tra le maglie slabbrate di una grande rete a strascico.
Dello scheletro della donna non c’era che la parte superiore del corpo, perfettamente intatta.
Mio nonno ricordava le ossa candide come avorio.
Sparse sul pavimento, tutt’intorno alla cassa toracica, scaglie simili a gocce d’argento.
E piccole gemme dalle facce esagonali, lucide come specchi, che sembravano diamanti.

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